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Vedere Joe Biden su tutti gli schermi del mondo mentire e contraddirsi, cercare di difendersi (senza successo) per il disastro combinato in Afghanistan è stato uno spettacolo pietoso. E istruttivo. Questa volta quella americana non passerà agli annali come una ‘figuraccia’, ma come una totale, rovinosa, colpevole sconfitta. Che riesce a far impallidire perfino la scioccante avventura in Vietnam. Che non riguarda solo il precipitoso quanto improvvido ritiro delle truppe degli ultimi mesi o settimane, ma una dine della storia che era già tutta scritta, dal principio, dalla folle reazione americana al folle attentato alle Torri Gemelle.

Una sconfitta storica, memorabile, che le immagini crude e le drammatiche testimonianze che giungono di ora in ora da Kabul rendono più sempre irrimediabile, talmente incredibile da diventare epica – è di ieri l’ultima immagine che non riesco a levarmi dalla testa: le donne ormai condannate che gettano i loro figli oltre la rete dell’aeroporto per salvarli dal regime dei talebani.
Se è vero che è la quantità di sangue versato l’unico vero metro per misurare la “grandezza” di una sconfitta, allora la tragedia di Kabul può aspirare ai libri di storia.
Il sangue inutile dei soldati (anche i soldati italiani) mandati a fondare in Afghanistan uno “stato democratico”. Sbarcavano dall’aereo le loro bare coperte dalle bandiere, e li chiamavano eroi, mentre erano solo da piangere come vittime. Vittime della ideologia tardo-imperialista e di una strategia fallimentare dettata dai governi e dai comandi militari dell’Occidente.
Ma soprattutto il sangue che sta scorrendo ora a Kabul e in tutto il paese. Un fiume di sangue che continuerà a scorrere. Il terrore di un popolo illuso per anni e oggi lasciato solo. Il terrore davanti alla sicura vendetta talebana (altro che “nuovi talebani moderati”), la corsa inutile verso l’aeroporto, i manifestanti uccisi a fucilate, le donne chiuse in casa aspettando la morte o un sicuro destino di schiave.

La storia è solo questa: abbiamo sbagliato tutto, punto e a capo. Ora tutti l’hanno capito, e tutti (Biden a parte) lo ammettono pubblicamente. Perfino l’Europa, la più fedele alleata, l’eterna gregaria, prende le distanze dal presidente americano. Dice Josep Borrell, l’ Alto rappresentante dell’UE: “Quello che è accaduto in Afghanistan solleva molte questioni sull’impegno occidentale, e su quanto siamo stati in grado di raggiungere. Il primo obiettivo era combattere Al Qaeda. Il presidente Biden ha detto che costruire uno Stato non è mai stato ‘un obiettivo’,  questo è discutibile. Abbiamo fatto molto per costruire uno Stato che potesse garantire lo stato di diritto ed il rispetto delle libertà fondamentali. Siamo riusciti nella prima parte. Abbiamo fallito nella seconda missione. Anche se c’è da chiedersi se fosse una missione”.

Tremenda la chiusa di Borrell: “c’è da chiedersi se fosse una missione”, una immagine plastica del gran caos che deve regnare nella gloriosa alleanza atlantica. Quel che è sicuro – e che nessuno lo dice –  è che le guerre, anche questa guerra, è anche, forse soprattutto,  il frutto delle pressioni delle potentissime  lobbies dei comandi militari e dei produttori e commercianti di armi.
La guerra, la missione, il ritiro precipitoso, il baratro finale – quello a cui oggi stiamo assistendo – mi ha ricordato La Fila dei ciechi, lo straordinario dipinto di Pieter Bruegel. In testa alla fila c’è (sempre lui) il cieco americano, e attaccato a lui il cieco inglese, poi il cieco francese, il cieco italiano… Tutti destinati a seguire il primo della fila, nello stesso buco.

Da quasi un secolo l’America è il ‘paese guida’ di tutto l’Occidente. Lo Sbarco in Normandia e in Sicilia, i soldati americani che regalano cioccolata e sigarette, il Piano Marshall, la Guerra Fredda e il Patto Atlantico, la Nato che ha riempito l’Italia e l’Europa di basi militari e missili atomici. E poi il rosario di guerre e “missioni di pace” (sic!) per sistemare un dittatore (come GheddafiSaddam Hussein, prima grandi amici dell’Occidente, diventati improvvisamente pericolosi terroristi). Guerre per esportare la civiltà o riportare la democrazia in questo o quel paese selvaggio.
In cima c’è sempre l’America. Gli Stati Uniti decidono, comandano, sparano il primo colpo, gli altri –  prima l’Inghilterra, poi la Francia, l’Italia e via tutti gli altri seguono in fila indiana.
Il risultato? Pessimo, invariabilmente disastroso! Guardate oggi l’Iraq, la Libia, l’Afghanistan.
Dopo il fuoco e il furore della guerra, dopo il passaggio dei contingenti alleati, la situazione è ancora più disperata e disperante: peggiore di quando gli Usa & company decisero di intervenire. Il terrorismo non è vinto. E ancora profughi, ancora fame, sangue, violenze sulle donne.

In queste ore c’è un gran viavai di aerei per portare in salvo migliaia di afgani, quelli che avevano collaborato o che erano comunque venuti in contatto con il personale dei contingenti stranieri. Sono loro i soggetti più a rischio, il primo bersaglio della sicura vendetta talebana. Ma nel mirino ci sono TUTTE le donne. C’è un popolo intero. Ed è ovvio, non è possibile mettere in salvo tutto un popolo, aviotrasportare 40 milioni di afgani.

Intanto, in tante città d’Italia, cresce uno spontaneo movimento di protesta e di solidarietà al popolo afgano. Si moltiplicano le iniziative delle donne italiane  per salvare le sorelle afgane, per chiedere a Draghi di organizzare più viaggi, di ampliare il più possibile il numero dei fuggitivi a cui dare accoglienza in Italia.
Possiamo sperare che il governo si smarchi dalle posizioni oltranziste di Matteo Salvini? Possiamo sperare di salvarne 100 o 1.000 in più del previsto? Non sarebbe un risultato di poco conto. Anche solo salvare una vita in più, una donna, un bambino, è un motivo sufficiente per scendere in strada.

Alla fine, rimane comunque la colpa incancellabile – una responsabilità diretta, documentata, incontestabile –  della Nato, degli Stati Uniti e dei suoi alleati, per aver consegnato il popolo afgano alla follia ideologica dei talebani. E’ su questo che mi pare non ci sia da parte del governo e dei partiti italiani (anche del Centrosinistra) nessun ripensamento di fondo.
E proprio questo servirebbe: un’analisi coraggiosa e un uguale coraggio di domandarsi se non sia venuta l’ora di cambiare strada. Di cambiare paradigma. Di mettere finalmente in discussione la nostra adesione alla Nato – in compagnia, tra l’altro, con la Turchia di Erdoğan. Di sloggiare dal territorio nazionale tutte le basi Nato e americane, le testate nucleari, i carri armati. Di riconvertire la nostra industria bellica, smettere progressivamente di produrre e vendere armi a tutto il mondo.

Capisco il sorriso di qualche smaliziato lettore. “Fuori dalla Nato” è sempre stato uno slogan extraparlamentare e comunista, E la campagna contro le spese militari continuano a farla gruppetti di pacifisti incalliti e di reduci nonviolenti. Tutto vero, questi obbiettivi non hanno mai attecchito nei sindacati e nei grandi partiti, non hanno mai varcato la porta delle aule del parlamentari. Ma sono queste ‘utopie estremiste’ che oggi indicano un’altra via da imboccare. E’ da qui che dobbiamo necessariamente ripartire. Se non vogliamo ritrovarci incastrati in un’ennesima guerra, diventare complici di un altro fiume di sangue innocente.
Oppure resteremo sempre come siamo in queste ore, a guardare le immagini che passano veloci sul video, accesi da una rabbia impotente o sorpresi da una inutile lacrima.

In copertina:  Pieter Bruegel il Vecchio, Parabola dei ciechi, 1568, Galleria Farnese (su licenza Creative Commons)

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Francesco Monini

Nato a Ferrara, è innamorato del Sud (d’Italia e del Mondo) ma a Ferrara gli piace tornare. Giornalista, autore, infinito lettore. E’ stato tra i soci fondatori della cooperativa sociale “le pagine” di cui è stato presidente per tre lustri. Ha collaborato a Rocca, Linus, Cuore, il manifesto e molti altri giornali e riviste. E’ direttore responsabile di “madrugada”, trimestrale di incontri e racconti e del quotidiano online “Periscopio”. Ha tre figli di cui va ingenuamente fiero e di cui mostra le fotografie a chiunque incontra.


Chi volesse chiedere informazioni sul nuovo progetto editoriale, può scrivere a: direttore@periscopionline.it