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Vite di carta. Il saluto di Hygia

“Da vivo ho fatto quello che ho voluto, non so per quale ragione sono morto”.
“Nella vita l’uomo è proprietario esattamente di ciò che può usare”.
“Come i frutti stanno appesi all’albero, così i nostri corpi cadono quando sono maturi, oppure si staccano presto, ancora acerbi”.

Traduco all’impronta tre testi epigrafici ritrovati a Roma e a Verona, non a caso le due città italiane più ricche di tracce dell’antica Roma. Stamattina ho fatto visita al cimitero del mio paese e ne ho percepito quanta voglia abbiamo di dialogare con i nostri cari estinti, un rito che si rinnova nei giorni attorno alla data del 2 novembre: il mio è un dialogo che non ha interruzione.

Vado ogni settimana a salutare i miei genitori e con loro metto in comune i pensieri. In questi giorni il cimitero è un luogo pieno di voci, i visitatori sono tanti e nell’incontro con i rispettivi defunti o con i vivi che rivedono lì chiacchierano con energia. La mezza voce sarebbe gradita, ma si sa che questi nostri anni non la contemplano più e si parla a voce alta nei musei e nelle chiese, ovunque.

Ho cercato nei miei manuali di Latino le epigrafi latine che ho tradotto di sopra, le ricordavo fatte di poche parole ma intense. Ciò che colpisce è che in esse sono i defunti a parlare, come in una piccola Antologia di Spoon River italica. Sembrano ripensare alla vita che hanno lasciato per distillarne il senso; sembra vogliano comunicare con noi, darci testimonianza di se stessi. Il cenere non è muto in casi come questi.

Hygia è una voce che viene da un tempo antico, ma da un luogo più vicino a noi: lei, la donna perita quando era ancora giovane ci saluta dalla sua tomba, la n.28 della piccola necropoli romana di Voghenza, e ci augura ogni bene: bene valeatis!  La sua epigrafe è scritta in un latino semplice che la definisce un’anima dolce (dulcis anima), non digna di morire e cito, cioè presto, il suo frutto si è staccato dal ramo dell’albero.

Di Hygia so più cose, dal momento che è vissuta qui nel territorio ferrarese, anche se molto tempo fa, tra la fine del II e l’inizio del III secolo. Della filosofia spicciola che emana dalle altre iscrizioni rimango affascinata, ma non conosco il nome dei rispettivi defunti; semplicemente ognuna di esse mi rimanda a un tipo umano che mi pare di avere conosciuto nella mia vita.

Ci sono persone così: quella che adotta una sola regola di vita, e cioè seguire la propria volontà; quella che ha capito che la ricchezza è disporre di ciò che ci è utile, senza badare alla quantità o al valore pecuniario di quello che abbiamo; quella che ha avuto piena consapevolezza della fragilità umana e si è percepita come un frutto che potrebbe staccarsi dal ramo in qualunque momento.

Di Hygia so tutto quello che il contesto intorno a lei mi trasmette. Il cippo che le è dedicato non contiene decorazioni particolari, né figure in rilievo che la rappresentino; è però un piccolo monumento alla sua memoria, che sappiamo molto costoso all’epoca. La sua condizione economica ci appare così fiorente. Il nome è uno solo, Hygia e rappresenta nella Roma del periodo imperiale la condizione giuridica di schiava.

Sono molti gli individui sepolti nelle 67 tombe di Voghenza a condividere lo status di schiavo; ciò non toglie che vivessero tutti in condizione abbastanza agiata, talvolta occupando ruoli sociali di rilievo. Ne è esempio Halus, che era saltuarius di Augusta in un periodo ancora precedente, nel primo quarto del I secolo: il suo era probabilmente un ruolo amministrativo importante nel fondo di proprietà della famiglia imperiale (saltus).

Da certe iscrizioni sulle tombe conosciamo coppie di sposi potremmo dire ‘miste’: lei possiede due nomi ed è perciò una donna libera, lui ha il solo nome da schiavo. Nello spaccato di società che la necropoli di Voghenza ci fa conoscere  ci sono individui di condizione libera, sia per nascita che in seguito ad affrancamento dal loro padrone, che in questo modo li ha resi liberi, o per meglio dire liberti secondo il lessico giuridico latino. Tuttavia gli schiavi non sono pochi, alcuni di loro rimangono  tali solo per la convenienza del padrone che, pur affidando loro incarichi importanti, è tenuto a pagarli di meno.

Prevalgono le donne sugli uomini, almeno nel periodo a cui rimandano le tombe, dal I al III secolo. In questo periodo l’Impero di Roma si estende prodigiosamente fino a occupare i paesi affacciati sul Mediterraneo, un mare che diventa così nostrum.

Dal vicino mare Adriatico provengono molti marinai in pensione: sono i classiarii impegnati sulle navi della flotta di stanza a Ravenna, che a fine carriera ottengono dall’Imperatore il loro diploma di cittadini romani, incassano la liquidazione e si stabiliscono nell’entroterra, abitano nel nostro villaggio del ferrarese (vicus Habentiae, da cui Voghenza) e lì spesso investono il loro gruzzolo in attività commerciali.

L’economia locale fiorisce: alle attività agricole si affiancano quelle artigianali e commerciali; una su tutte la produzione di tegole detta Pansiana di cui restano numerosi esemplari al Museo del Belriguardo a Voghiera, vero gioiello museale del nostro territorio.

Le tante visite fatte con gli studenti hanno fruttato sempre nuove scoperte: i ragazzi sono osservatori attenti. Specie se si organizzano piccole cacce al tesoro, riescono a scovare ogni cosa. Nelle epigrafi in mostra, dove il lapicida scrivendo ha commesso un errore di ortografia? Pochi secondi e una voce trionfa dalla sala attigua: ”E’ qui! Ha scritto Baleria anziché Valeria!!” Errore grave, spiego, però può essere comprensibile se… e giù con le spiegazioni fonologiche e storiche.

Quale sarà l’oggetto più prezioso contenuto nei corredi tombali esposti? Io lo so, l’ho letto nel tabellone all’ingresso della sala: è il balsamario di sardonice della tomba 61. E’ un pezzo unico, ricavato da un solo blocco di pietra  e lavorato ad opera d’arte. E via dicendo, tra oggetti in vetro, ceramiche, lucerne e molto altro. Tra stele, cippi, qualche sarcofago e lastre tombali con le loro iscrizioni.

Hygia l’abbiamo conosciuta così, come una giovane donna vissuta qui, con un carattere amabile e morta prematuramente. A che età? Mi chiedono. Ragioniamo: all’epoca l’aspettativa di vita si aggirava sui quarant’anni; Hygia non compare come coniuge di un uomo, ma non è definita come bambina. Una giovane adulta uscita dalla puerizia, la puella che avete incontrato nelle prima frasi latine. Avrà diciotto anni o giù di lì…

Il saluto di Hygia era e rimane ancora oggi fresco e gentile, dalla sua tomba orientata verso la strada che passava vicino alla necropoli i suoi contemporanei potevano vederlo. Emersa dalla campagna di scavo del 1978 e portata qui al Belriguardo, la tomba continua a parlarci come un segno della nostra storia e noi possiamo risponderle.

 

I  riferimenti alla lingua delle epigrafi e al contesto storico provengono dai seguenti testi:

  • Marisa Alessandri, Roberta Barbieri, Anna Lodi Sansonetti, Hygia Have… Lettura di epigrafi del territorio ferrarese, Quaderni del Liceo Ariosto di Ferrara, n.25, 2001
  • Ottorino Bacilieri, Storia archeologica di Voghenza e del suo territorio, Edizioni Arstudio C Ferrara, 1994
  • AAVV, La raccolta archeologica del Belriguardo, Atti del Convegno Archeologico aVoghiera – 28 giugno 1998
  • Bianca Maria Mariano, Dai testi alle strutture, Edizioni Marietti, 1988

Per leggere gli altri articoli di Vite di carta la rubrica quindicinale di Roberta Barbieri clicca sul nome della rubrica o il nome dell’autrice

 

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Roberta Barbieri

Dopo la laurea in Lettere e la specializzazione in Filologia Moderna all’Università di Bologna ha insegnato nel suo liceo, l’Ariosto di Ferrara, per oltre trent’anni. Con passione e per la passione verso la letteratura e la lettura. Le ha concepite come strumento per condividere l’Immaginario con gli studenti e con i colleghi, come modo di fare scuola. E ora? Ora prova anche a scrivere


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