Il ritorno al giardino dei ricordi: la mostra di Eric Finzi celebra il centenario di Giorgio Bassani
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Ritorno al giardino di Micòl, a Ferrara, alla terra delle radici: un cerchio che si chiude, come la ruota di una bicicletta. Legami, connessioni, fra persone, comunità, fra eventi storici, fra esperienze di vita, ricordi: le maglie di una rete da tennis o il telaio di una racchetta.
La personale di Eric Finzi “Ritorno al giardino”, allestita a Casa Ariosto a Ferrara a cura del Meis-Museo Nazionale dell’Ebraismo Italiano e della Shoah, dell’Istituto di Storia Contemporanea e dei Musei Civici di Arte Antica del Comune di Ferrara, sembra essere lo snodo di una trama, un intreccio che, nell’epoca della rete virtuale, si tesse qui e ora nella vita reale, partendo da lontano e soprattutto guardando lontano.
È l’amicizia che lega Anna Quarzi – presidente e direttrice dell’Istituto di Storia Contemporanea di Ferrara – a due prime donne dell’arte come Lola Bonora e Angiola Churchill a farle conoscere il lavoro di Eric Finzi, artista newyorkese che si rivolge a lei per scoprire se è vero che ha origini nella comunità ebraica ferrarese Ferrara. È il Meis-Museo Nazionale dell’Ebraismo Italiano e della Shoah, il cui direttore Simonetta Della Seta con tutto lo staff sta lavorando per creare sempre più relazioni a Ferrara, in Italia e all’estero, a cogliere l’occasione offerta dalla professoressa Quarzi di allestire una mostra con le opere di Finz. Sono i Musei Civici di Arte Antica a mettere a disposizione il personale e gli spazi espositivi per ibridare passato, presente e futuro di Ferrara città d’arte.
“Ferrara ha una grande forza: riuscire davvero a fare rete, per dimensioni, per storia, ma soprattutto per le persone che lavorano nel settore culturale cittadino”, ha detto il vicesindaco e assessore alla cultura Massimo Maisto all’inaugurazione di martedì pomeriggio. Ferrara, ha continuato Maisto, “ha una storia ebraica lunga e compenetrata con quella del contesto cittadino”, per questo il Meis è uno dei quattro grandi poli museali e culturali intorno ai quali si svilupperà la politica culturale cittadina, insieme al Quadrivio Rossettiano, al Castello e alla triade Marfisa-Schifanoia-Bonaccossi. “Questa mostra è la sperimentazione di cosa potrà essere Ferrara fra non molti anni”, ha concluso l’assessore.
“Abbiamo fortemente voluto che la data dell’inaugurazione fosse oggi, 15 novembre”, ha sottolineato Simonetta Della Seta, “proprio per questo incrocio di anniversari: quello dell’Eccidio del Castello e quello del Centenario di Bassani”, le cui celebrazioni ferraresi sono entrate nel vivo proprio martedì con l’apertura di “Ritorno al giardino” (Giorgio Bassani 1916-2016). “Questa è una mostra sul e nel presente, ma ci porta a guardare avanti” perché, come ha anticipato il direttore del Meis, Eric Finzi ha già promesso di realizzare un’opera appositamente per il museo in costruzione in via Piangipane.
“Bicicletta perduta”, “Sogno ciclistico”, “L’angelo Contini”, “L’angelo Finzi”, “Tennicycle”, i lavori di Eric Finzi raffigurano un mondo perduto, quello della comunità ebraica ferrarese della prima metà del Novecento, conosciuto dall’artista perché rievocato dal libro di Giorgio Bassani e dal film di Vittorio De Sica: illustrano “la bellezza lasciata da mio padre a Ferrara”, “sono oggetti innocenti” che rimangono “oltre gli eventi”, ma non nascondono “segnali della rottura, dell’interruzione di questa bellezza”, ha spiegato l’autore.
La famiglia di Finzi è sopravvissuta al genocidio perché il nonno aveva affari a Vienna e così “hanno capito cosa stava succedendo fin dalla Notte dei Cristalli: si sono salvati fingendosi dei rifugiati in un piccolissimo paesino vicino Roma e poi sono riusciti a salire sull’unica nave a disposizione dei profughi che salpava da Napoli per andare in America”. Per raggiungere la città partenopea e imbarcarsi hanno preso una bicicletta, che si è rotta lungo la strada. Sono queste schegge di esperienze vissute attraverso i racconti dei genitori che gli hanno reso così famigliari “Il giardino dei Finzi Contini” e Ferrara, con la quale sente “un legame fortissimo”, tanto da chiamarla “la terra dei miei padri”, anche se è nato a New York ed è la prima volta che ci viene. “Questo ritorno è pieno di emozioni: particolarmente forte è stato leggere il mio cognome, Finzi, sulla lapide dedicata alle vittime della Shoah in via Mazzini”.
Artista per passione e chirurgo per professione – o viceversa, difficile a dirsi – e con una laurea anche in chimica, crea i suoi quadri lavorando a terra, in orizzontale con grandi siringhe e aghi riempiti con una resina molto densa e vischiosa. “Non ho molto tempo prima che la resina si asciughi e quindi devo pensare prima a come il quadro apparirà in verticale sulla parete, ma soprattutto devo reagire ai movimenti, al flusso della resina”, ha spiegato l’artista. “Questa fluidità è come quella del tempo che passa” e quando la resina si asciuga è come se il flusso del tempo si fermasse, un’istantanea, non realistica come una foto, ma creata come un ricordo.
Eric Finzi è uno dei componenti di quella seconda e terza generazione che ricorda la Shoah solo attraverso i racconti dei genitori e dei nonni – quando sono stati disposti a raccontare – o le immagini e le rappresentazioni culturali della comunità di appartenenza. Osservando il suo lavoro ispirato al libro di Giorgio Bassani e al film di De Sica viene in mente la “memoria protesi” di cui parla Alison Landsberg. Landsberg allude a un nuovo tipo di memoria senza una base organica, nella quale i ricordi non sono naturali, non sono cioè il prodotto di esperienze vissute dall’individuo, ma derivano dal coinvolgimento in una “rappresentazione mediata”, attraverso film, spettacoli o esposizioni. Questi ricordi tuttavia derivano comunque da “un’esperienza” e coinvolgono quindi non solo l’aspetto cognitivo, ma anche i sensi e, proprio come una protesi, spesso fanno ricordare il trauma subìto, in questo caso la Shoah. L’espressione “memoria protesi” mette infine in evidenza la “intercambiabilità” e “trasferibilità” e la “natura mercificata” di tale costruzione memoriale. Il vantaggio, secondo l’autrice, starebbe nella capacità di queste memorie di produrre empatia, responsabilità sociale e alleanze politiche che trascendano la razza, la classe e il genere. Questa mancanza di autenticità non è però solo un potenziale, ma anche un pericolo: il forte rischio di smarrire la capacità di distinguere fra memorie autentiche e memorie mediate. Tale rischio deriva anche dalla mercificazione conseguente alla diffusione di massa dei racconti memoriali. Tutto insomma si gioca su un difficile equilibrio derivante dal fatto che le memorie protesi non sono costruite all’interno di un determinato gruppo etnico e/o sociale, ma diffuse nell’intera società attraverso i mezzi di comunicazione e l’industria culturale di massa.
Alle opere di Finzi ospitate a Casa Ariosto – ai quadri di resina ipossidica, emblema di un ricordo i cui colori non potranno più svanire nel tempo; alla racchetta di vetro, che evoca quei cristalli andati in frantumi nel novembre 1938; alle installazioni con i cerchioni di biciletta, senza le camere d’aria, simboli delle vicissitudini della comunità ebraica da cui Finzi proviene – si può però applicare anche la nozione di “post-memoria” formulata da Marianne Hirsh. Con questa espressione l’autrice definisce la strategia usata per reagire al trauma della Shoah da parte delle generazioni successive a quella che l’ha vissuto. I componenti delle generazioni del Dopoguerra sono ormai consapevoli del fatto che la propria memoria è costituita da rappresentazioni degli eventi della Shoah, non dagli eventi stessi. La generazione della post-memoria però, dislocando e ricontestualizzando nelle proprie opere d’arte queste immagini note a tutti, è riuscita a evitare che la ripetizione si trasformasse in immobilità, paralisi o semplice riproposta del trauma, come è spesso accaduto, invece, per i sopravvissuti. Attraverso queste ricontestualizzazioni le tracce del passato cambiano il proprio status, diventano “oggetto culturale”. Il loro scopo diventa farci interrogare non sul nostro legame con la Shoah, ma sulle circostanze entro cui si sono costruite la nostra memoria mediata e la nostra esperienza di spettatori delle narrazioni della Shoah e in rapporto a quali altri discorsi sociali. L’espressione post-memoria enfatizza il tipo di rapporto che si instaura fra la memoria della seconda generazione e le esperienze dei propri padri. Il termine serve cioè a sottolinearne la differenza temporale e qualitativa rispetto al ricorso dei sopravvissuti, a evidenziarne il carattere secondario o di seconda generazione e a ricordare che la post-memoria è nata dallo sradicamento, che è una costruzione sostitutiva e successiva. Ciò che prende forma è “la rappresentazione, non dell’avvenimento, ma del rapporto della memoria con quell’avvenimento” e la monumentalizzazione della memoria della Shoah può essere evitata proprio perché ciò che prende forma non è l’evento, ma la riflessione sull’evento e sui modi in cui è stato ricordato. In altre parole gli artisti ci mostrano la possibilità di una narrazione memoriale che non sia una “sacralizzazione ottenebrante”, né “il passato-protesi della commemorazione”.
“Ritorno al giardino”, personale di Eric Finzi, a cura di Meis-Museo Nazionale dell’Ebraismo Italiano e della Shoah, Istituto di Storia Contemporanea di Ferrara e Musei Civici di Arte Antica del Comune di Ferrara, Casa di Ariosto, visitabile fino al 31 gennaio 2016, mar-dom 10-12.30 e 16-18, ingresso libero.
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Federica Pezzoli
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