Per conoscere e comprendere un personaggio come Ibio Paolucci è necessario riesumare il clima nel quale viveva Milano dopo la strage di Piazza Fontana, clima che definirei vigliacco sotto molti aspetti e di cui Ibio fu senza dubbio protagonista.
Il capoluogo lombardo era stato assalito e direi conquistato dalle bande dei giovani fascisti agli ordini di vecchi caporioni con la compiacenza di una polizia addomesticata. Se ne era avuto prova il 19 novembre 1969, quando in via Larga le forze dell’ordine attaccarono un mesto corteo di pensionati usciti dal Teatro Lirico dove si era svolto una pacifica manifestazione sindacale: i vecchi vennero accerchiati e attaccati col manganello, non poterono opporsi, ma in loro aiuto arrivarono dalla vicina università statale le schiere degli studenti capitanati da Cafiero e da Toscano. E cominciò la battaglia, conclusasi con la morte del povero agente Annarumma, il quale andò a scontrarsi col suo gippone contro un altro mezzo della polizia. Con una prontezza impensabile, la versione ufficiale venne data alla stampa: il giovane poliziotto era stato ammazzato dagli studenti comunisti. Sulla base di questa incredibile bugia Milano si spaccò in due, da una parte l’invincibile armata della borghesia, con i suoi potenti giornali e le radio nazionali, dall’altra coloro che pensavano di fare la rivoluzione messicana, atteggiamento rivelatosi infine puerile.
In questo bailamme, spesso anche ideologico, non fu semplice trovare la linea più corretta, cavalcata, invece, con intelligente fermezza, dal comunista Paolucci: credo che allora Ibio abbia sbagliato ben poche volte. Era prudente Ibio, come gli avevano insegnato i vecchi compagni, abituati a vivere e a operare in un mondo in cui erano trattati come poveri scemi con tre narici o come bestie feroci: il mondo doveva essere liberalizzato dicevano i pompieri del qualunquismo conformista. Molti giovani giornalisti furono acquistati dalla borghesia, nacquero giornali apparentemente senza ideologie, ovvero con l’ideologia della non ideologia e risultarono spesso i più feroci oppositori di coloro che volevano un altro mondo, un’altra Italia, più pulita, più onesta. Era il tempo dei grandi giornalisti sgravati da generose scrofe: i porcellini usavano come corrispondenti fidati il giudice massone, il carabiniere dei Servizi legati alle bande mafiose, il poliziotto pronto a qualsiasi comoda verità, il cardinale che benedice le armi pronte a sparare sul popolo.
Se ben ricordo, Ibio non si lasciò affascinare dal facile soldo padronale, sempre più di frequente scelse il silenzio, il caldo silenzio delle persone più oneste e più preparate, a volte scontrandosi anche con i compagni che vedevano in fondo ai lunghi corridoi di viale Fulvio Testi, dov’era la sede dell’Unità, vedevano la luce brillante del liberismo sfrenato che oggi intristisce la nostra società.
Questo ricordo di Ibio Paolucci è stato scritto in occasione del premio ‘Marco Nozza’ per il giornalismo d’inchiesta, investigativo e informazione critica, consegnato oggi a Langhirano (Pr) all’interno della rassegna ‘I sapori del giallo’ (leggi qui il programma)
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Gian Pietro Testa
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