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La sera in cui andai con il pittore Paolo Baratella per la prima volta a casa di Carlo Bassi, nel centro di Milano, fu come se mi accendessero la luce: era un appartamento molto bello, arredato – allora dicevo – alla svedese, dominavano il colore bianco e il profumo delle tagliatelle al ragù di sua moglie Paola.
Ero appena arrivato a Milano, una città europea che non amava i meridionali: “Non si affitta a meridionali!”, minacciavano i cartelli appesi fuori dalle porte. Ora i meridionali sono diventati milanesi e non vogliono coloured in fuga. Ero in città da pochi giorni e mi sembrava che anche la mia asma si fosse come liberata: grande Milano dicevo. Gli imprenditori (allora si chiamavano padroni) studiavano per essere dei magnati da cinema, aperti, comprensivi, pronti al dialogo; gli operai s’impegnavano a fare i bravi bambini, come volevano i loro datori di lavoro; gli artisti – quanti erano e da tutto il mondo! – non parevano schiavi dei mercanti. Milano era, insomma, il falansterio – ma non il palazzo di 1600 abitanti, come voleva Fourier – dell’umanità italiana di cui l’elegantissimo Carlo Bassi, indissolubilmente legato all’amico Boschetti, mi sembrava fosse uno dei custodi. Io la vedevo così.
Carlo Bassi e Goffredo Boschetti erano i due ferraresi ‘arrivati’: avevano vinto a Torino il concorso per costruire la Galleria d’Arte Moderna, a Milano erano fra i giovani architetti più importanti, costruivano palazzi che pareva di essere a Zurigo, erano, insomma, gli ambasciatori di quella che sembrava essere la nuova Atene. In più, Bassi scriveva, eccome se scriveva! E più avanti negli anni avrebbe affidato alla parola il compito di traghettare i suoi estimatori portandoli nel suo mondo pensato, dove rimaneva sempre in primo piano Ferrara, con i suoi palazzi, il suo Castello, le sue vie dannunziane. E le sue memorie, che ormai sono le mie.
E’ quasi (e senza quasi) impossibile ricordare tutto quello che ha fatto e scritto e pensato l’amico Carlo. Non era mai sazio di fare, di immaginare il nuovo, di credere che un foglio bianco possa restare bianco. Un giorno mi sono arrivate le bozze di un suo tentativo di scrivere la propria autobiografia, da cui estraggo un passaggio secondo me importante per capire l’uomo e l’artista: “cosa aspetto a chiudere la mia finestra sul mondo, mi andavo domandando, e a rifugiarmi su una nuvola a contemplare il Palazzo dei Diamanti? Aspettiamo insieme, mi ha sussurrato Paola, non farti fretta, accontentiamoci, per ora di guardare i diamanti delle bugne del palazzo di Sigismondo, dagli angoli del Quadrivio”.

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Gian Pietro Testa



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