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Sono nato il dieci di febbraio del 2007, proprio quell’anno mio padre perse il lavoro perché la fabbrica in cui aveva lavorato per cinque anni era entrata in crisi e poco dopo fallì. Prima di lui anche mia madre aveva dovuto lasciare il suo posto di impiegata, ma lo fece per causa mia, cioè per farmi venire al mondo e potersi poi occupare di me a tempo pieno. Ricordo che passai quasi tutta la mia infanzia a casa dei nonni, perché mio padre, non potendo più mantenerci coi lavoretti precari e in nero che riusciva a procurarsi dopo il licenziamento, dovette decidere di tornare a vivere dai suoi portandosi dietro mia madre e me.
Comunque, per quei tempi vivere dai nonni era una cosa abbastanza normale. Oltre a me, molti miei coetanei, amici e compagni di scuola, abitavano coi genitori nella casa dei loro nonni. Per un ventenne o un trentenne di allora era praticamente impossibile chiedere un mutuo e men che meno comprare una casa. Si stava coi genitori anziani anche da adulti, magari laureati, spesso senza lavoro, oppure sposati con figli come mio padre, appunto. I nonni, con le loro case e le loro pensioni, erano una risorsa preziosa, e lo rimasero per tutto il tempo della crisi.
La crisi economica durava da parecchio ormai e, come noi, molta altra gente non se la passava affatto bene. Proprio loro, i miei nonni, mi raccontavano che prima che nascessi la situazione generale non era mai stata così: tutti quanti avevano più soldi e li spendevano per divertirsi, alla sera si usciva di casa tranquillamente e si poteva passeggiare per il centro senza timore di essere aggrediti o accoltellati da qualche balordo per un nonnulla, come invece accadeva negli anni in cui ero ragazzo io. Mi dissero che anche le stagioni non erano più le stesse: un tempo, a maggio già faceva caldo e gli insetti notturni uscivano dai loro bozzoli per ronzare attorno ai lampioni illuminati, il gelo poi arrivava già a dicembre e durava quasi fino a fine febbraio imbiancando di neve le città per diverse settimane.

Non so se c’è mai stato un momento nel mondo in cui la gente, tutta la gente, sia stata felice, non credo. A scuola la storia mi appassionava parecchio e ho imparato che, bene o male, guerre e miseria non sono mai mancate. Ma è un fatto che i vecchi, compresi i miei nonni, ricordavano il passato con nostalgia, persino quando raccontavano delle loro tragedie.
Purtroppo il mondo della mia infanzia fu tormentato dalle guerre, dal terrorismo, dalla crisi economica mondiale e dal problema sempre più allarmante del mutamento climatico dovuto all’inquinamento globale… eppure confesso di non avere ricordi brutti, anzi, forse perché ero semplicemente un bambino, dev’essere senz’altro così.
Adesso so che, per quanto imperfetto, il mondo alla fine si sarebbe sempre salvato, nonostante tutti i nostri errori e orrori commessi, il mondo sarebbe sempre guarito e rinato, e noi con esso. E in effetti successe per davvero.
Vorrei essere diventato vecchio anch’io e lamentarmi del presente rimpiangendo il passato, come hanno fatto mio padre e mio nonno.
Ormai l’angoscia dei primi tempi ha ceduto il passo alla rassegnazione e al rimpianto, il rimpianto del passato certo, ma anche del presente e di un futuro che non ci sarà più.
Quando guardo fuori vedo l’ulivo che aveva piantato mio padre nell’estate del 2020, fu una lunga estate calda, come il titolo di un film di cent’anni fa. Quell’anno mio padre aveva iniziato a lavorare in un vivaio e finalmente poteva mettere in pratica, a quarantacinque anni compiuti, la sua vecchia laurea in agraria, fu d’allora che iniziò a spiegarmi un sacco di cose sulle piante, sugli alberi, sugli insetti, cose che non avrei mai immaginato potesse sapere. Aveva piantato un giovane ulivo nel piccolo giardino davanti alla casa dei suoi genitori, casa in cui tornammo ad abitare stabilmente cinque anni dopo, alla morte del nonno.
È la casa in cui abito tuttora, l’ulivo è diventato grande, per il resto il quartiere è rimasto quasi lo stesso che in passato. Sono successe tante cose, forse troppe, molte cose brutte. Il mondo era diventato un posto tetro, quasi senza speranza e solo per colpa nostra.
Poi, tutto quanto cominciò lentamente a risollevarsi e a sistemarsi per il meglio: l’economia ritornò a ingranare, il clima si normalizzò gradualmente e pure l’inquinamento, grazie all’invenzione delle centrali Tesla e alla scoperta dell’energia magnetronica, diminuì progressivamente. Certo, ci vollero due guerre devastanti, quella dei droni e quella energetica, perché tutti quanti capissero che era venuto il momento di fermarsi a riflettere.

Sono ormai dieci anni che nel mondo non si fanno guerre, che le superpotenze e le multinazionali hanno smesso di competere a spese delle popolazioni, cominciando a cooperare nell’interesse comune. Sono persino riusciti a trovare una nuova fonte energetica totalmente pulita, e pure a inventare una tecnica di propulsione rivoluzionaria, in grado di lanciare tutti quei vettori super veloci nello spazio per la missione. Il tutto in una manciata di anni. E più ci penso, più la cosa mi fa capire quanta stupidità abbia governato il passato del mondo. Mi chiedo se doveva succedere proprio tutto questo perché il mondo imparasse ad essere migliore. Vero, non sarebbe cambiato nulla, ma almeno avremmo cominciato a vivere meglio molto prima.
Si doveva proprio arrivare alla fine di tutto per accorgersi di quanto tempo si è perduto? Bastava imparare ad amare e amarsi un po’ di più…
Guardo fuori e vedo il nostro bellissimo ulivo, ha già i germogli che questa volta non faranno in tempo a diventare frutti, come hanno fatto ogni anno per trent’anni. Oggi è una splendida giornata di sole, fa caldo e sarebbe l’ideale per una gita al mare.
Tra qualche mese avrei compiuto cinquantadue anni e so che non ci arriverò, eppure non sono mai stato così in forma. Adele dorme, quando sarà il momento la sveglierò, perché i suoi occhi sono l’ultima cosa che voglio vedere. Proprio ieri, prima che le comunicazioni si interrompessero definitivamente, ho ricevuto il messaggio di mio figlio: Matteo ha deciso di aspettare il momento accanto a Lucia che non può muoversi per via del pancione, saranno comunque in tre: loro due insieme alla mia futura nipotina, che nei miei sogni ho già incontrato più e più volte. E questo, pur nel dolore, mi conforta.

Sono due settimane, da quando c’è stata la conferma definitiva del fallimento della missione, che non riesco più a dormire. Scruto le stelle dal mio giardino, la luna è sempre al suo posto, azzurrina, impassibile come al solito. Da qualche notte la luce pubblica è stata disattivata, le strade e le case abbandonate sono nel buio più totale. La costante assenza di nuvole ha poi reso il cielo uno spettacolo di stelle senza precedenti, tra esse ho cercato di scorgere la nostra ultima stella, senza mai riuscire a vederla.
Guardo ancora fuori e quasi non ce la faccio a respirare: la nostra bella Terra! Il vento che muove le foglie e l’erba tutt’intorno, i colori dei fiori e i riflessi nell’acqua dello stagno sono più vivi del solito. È pazzesco, proprio adesso il mondo mi appare più vitale di quanto non sia mai stato.
In città la maggior parte della gente se n’è andata, non saprei dire né dove né perché, a che serve andare altrove? Io e Adele abbiamo deciso di restare in casa, nel quartiere non c’è più nessuno e questo mi dispiace, avrei voluto fare due chiacchiere con qualche vicino e magari abbracciarlo e salutarlo.
Sento una cosa che mi sfiora la gamba, abbasso lo sguardo e vedo Birba che mi guarda e scodinzola, sta avvertendo qualcosa e cerca conforto. Non mi sono dimenticato di lui, alla fine anche noi saremo in tre: io, Adele e il nostro cane, mi sembra giusto così. Mentre gli accarezzo la testa m’accorgo che all’esterno la luce è cambiata, guardo di nuovo fuori: il cielo si sta tingendo di rosso, ci siamo!
Corro a svegliare Adele, ma non dormiva, piangeva in silenzio. Le asciugo una lacrima accarezzandole la guancia, lei mi prende la mano e me la bacia, io le bacio la fronte e le sorrido. Sorride anche lei, ha gli occhi gonfi e stanchi, ma senza trucco sembra ancora una bambina. Una bambina di cinquant’anni con cui avrei voluto invecchiare, ma in fondo non importa, sono felice di essere con lei adesso.
Ci teniamo per mano e andiamo alla finestra senza dire una parola, Birba ci segue silenzioso, sembra tranquillo, del resto quello che vuole è soltanto poter restare accanto a noi. Fuori, nel cielo in alto, la luce rossa è già cambiata, sta schiarendo velocemente, sta diventando bianca, sempre più bianca, calda e abbagliante, come un immenso fuoco d’artificio: lo spettacolo dell’ultima stella è iniziato.

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Carlo Tassi

Ferrarese classe 1964, disegna e scrive per dare un senso alla sua vita. Adora i fumetti, la musica prog e gli animali non necessariamente in quest’ordine. S’iscrive ad Architettura però non si laurea, si laurea invece in Lettere e diventa umanista suo malgrado. Non ama la politica perché detesta le bugie. Autore e vignettista freelance su Ferraraitalia, oggi collabora e si diverte come redattore nel quotidiano online Periscopio. Ha scritto il suo primo libro tardi, ma ha intenzione di scriverne altri. https://www.carlotassiautore.altervista.org/


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