“La terreur à Paris” ha titolato Le Monde. Non sono parole qualsiasi per i parigini, perché fanno correre il pensiero a quando dopo la rivoluzione del 1789 la furia giacobina prese il posto dei principi illuministi, facendo scorrere su e giù la lama della ghigliottina in un diluvio di sangue.
Perciò l’accostamento con il massacro avvenuto nella capitale francese nella serata di venerdì 13 novembre, fa riaffiorare nei francesi quello spettro ancora vivo nella storia nazionale.
Il bilancio delle vittime del “carnage” rivendicato dall’Isis, ed eseguito con la freddezza spietata dei professionisti della morte al grido di: “Allah è grande”, avrebbe potuto essere di proporzioni più agghiaccianti se non fosse fallito il tentativo allo Stade de France in occasione della partita Francia Germania e, comunque, potrà fermarsi solo quando l’ultimo dei feriti, specie tra quelli ancora gravissimi, potrà dirsi fuori pericolo.
Prestando orecchio ai commenti e alle analisi, sono molti gli elementi inquietanti di questo massacro.
Tra i membri del commando terrorista, tra l’altro non tutti individuati, è risultato che alcuni sono francesi e belgi. Il primo punto interrogativo, quindi, si apre come una crepa sul modello dell’integrazione da sempre culturalmente ostentato con fierezza dal paese con la più grande comunità straniera di matrice islamica in Europa.
Il secondo punto interrogativo piove sulle nostre teste come un sasso, perché si viene a sapere che anche in questo caso, dopo quello della strage nella redazione di Charlie Hebdo (il 7 gennaio 2015), pare che la centrale del terrore sia stata individuata a Bruxelles. Capitale del Belgio, città sede delle istituzioni dell’Ue e ora anche punto nevralgico della barbarie nel cuore della democrazia europea?
Si viene anche a sapere che almeno un componente del commando responsabile della strage è giunto a Parigi da dentro il flusso migratorio entrato in Europa dalle porte della Grecia. Ma ciò che è ancor più inquietante è sentire che ci sarebbe addirittura una regia che regola i flussi migratori. E questo rende un bel problema come si possa fare distinzione fra coloro che realmente hanno bisogno di aiuto e chi approfitta delle rotte della disperazione per seminare morte. E’ oggettivamente difficile gestire con precisione millimetrica il registro della pietà e del rispetto della dignità umana, nel quale pure fatica a riconoscersi l’Europa, e contemporaneamente quello della severità inflessibile, evitando di incorrere nei cosiddetti danni collaterali.
Soprattutto quando il civile Occidente ha commesso ogni errore possibile nello scacchiere mediorientale, il cui insieme oggi ha finito per produrre la sorgente pressoché ingovernabile di un’ondata umana di proporzioni epocali.
Il timore fondato è che, come avvenuto negli Usa dopo l’11 settembre 2001, anche in casa nostra si vada verso un arretramento delle libertà personali nel nome dell’urgenza numero uno della sicurezza, percepita ormai in modo diffuso dalle opinioni pubbliche, a cominciare dai fatti di cronaca più locale.
Il rischio è che possano insinuarsi considerazioni che non hanno immediata relazione con l’attuale emergenza.
L’Italia su questo fronte vanta purtroppo l’esperienza dolorosa della lunga stagione del terrorismo, che ha insanguinato il paese dagli anni ’70 fino agli ultimi (si spera) colpi mortali esplosi contro Marco Biagi (Bologna 19 marzo 2002!).
Come avrebbe detto Pier Paolo Pasolini, sappiamo chi ha sparato e messo le bombe, ma non abbiamo le prove. Non tutte almeno.
Una verità storica, infatti, afferma che da una parte e dall’altra quelle avanguardie giovanili, ubriache di idee poco studiate e insegnate da pessimi maestri, oltre che prive di senno, furono lasciate agire perché, fino a un certo punto, funzionali a disegni molto più grandi delle loro malsane e sconclusionate teorie di ordine o di rivoluzione.
Se anche su questo pezzo di terza guerra mondiale che venerdì scorso a Parigi ha fatto un decisivo passo avanti come volume di fuoco si può applicare questo schema, allora un ennesimo punto di domanda cala sulla scena.
Così come prima o poi cosa l’Islam sia, voglia essere e diventare nel mondo contemporaneo, bisogna che qualcuno se lo chieda: dentro e fuori l’Islam. Tenendo certamente per buone le parole di papa Francesco: “Le religioni sono umane e questo non è umano”.
Se si parte da qui è già un passo avanti, ma adesso bisogna gridarlo a gran voce: dentro, oltre che fuori l’Islam.
Aiuterebbe a capire, in radice e a tutte le latitudini, che chiunque compia stragi d’innocenti al grido di: “Allah è grande”, sta bestemmiando, lui sì non chi fa satira, il nome di Dio e oltraggiando un’intera religione.
L’universo islamico da troppo tempo è percorso da un conflitto egemonico fra sciiti e sunniti, nell’ambito del quale è riconducibile anche ciò che accade in Siria. Fra i secondi è ascrivibile la follia dell’Isis, che nella declinazione wahabita più estrema ha in programma di sterminare gli oltre 150 milioni di sciiti e il corrotto mondo occidentale, con una presenza dietro le quinte tutt’altro che indifferente di realtà come l’Arabia Saudita e la Turchia.
Un pericolo tale, che in tanti nelle capitali europee ormai non si domandano più se, ma quando e dove sarà il prossimo attacco.
Dopo il massacro parigino si sono moltiplicati i messaggi di solidarietà e gli inviti all’unità nazionale dei vari leader, a partire da quelli europei.
Le solite frasi di circostanza? Certo, occorrerà ben altra strategia di fronte a quella che ha tardato a essere percepita come una guerra che nel frattempo ha alzato il tiro e che per vincerla richiede unità, molto oltre gli interessi nazionali fin qui prevalenti.
Se hanno fondamento i tanti punti interrogativi della questione, l’impressione è che siamo di fronte ad un’università del crimine alla quale occorre rispondere al più presto con altrettanta scienza e preparazione.
Dunque solidarietà e unità non bastano, ma dire come ha fatto Matteo Salvini, immancabile come “Il punto” di Paolo Pagliaro, che non servono a niente se non si fanno le cose che dice la Lega, dà l’idea di una politica italiana sempre più simile a una classe di alunni senza la maestra.
Per fortuna c’è un’opinione pubblica che porta fiori davanti all’ambasciata francese a Roma e che sa ancora intimamente tirare una riga per distinguere l’umano dalla bestialità.
Se c’è questo sentimento di sentirsi tutti francesi, e quindi europei, per quanto emotivo possa essere, la politica farebbe bene a coglierlo, per non trovarsi prima o poi relegata tra le cose inutili, in un momento di inaudita gravità che avrebbe invece tanto da chiederle.
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Francesco Lavezzi
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