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L’impressione è terribilmente simile a quella del film “The day after tomorrow” del 2004, ossia che non siamo lontani dal punto di rottura. Sullo schermo però il crack è climatico (tutt’altro che lontano, peraltro), mentre qui è sociale, quasi antropologico.
A Gorino, perché dovevano arrivare dodici profughe, è successo il finimondo. “Non è razzismo, ma non ci vanno le decisioni calate dall’alto”; “Si comincia così, poi ci tolgono tutto”. Sono solo alcune frasi della protesta che ha costretto il Prefetto di Ferrara a dirottare altrove le dodici donne, grazie al sì di chi, anch’egli all’ultimo minuto, stringendosi ha trovato per loro un tetto.

Andando oltre l’esercizio che appassiona tanti di tirare una riga per dividere i buoni dai cattivi, come si faceva a scuola quando la maestra usciva di classe, forse non è tempo perso riflettere su un un’ondata migratoria che, spinta dalla disperazione, è disposta a oltrepassare ogni ostacolo e frontiera pur di sopravvivere e cercare una speranza per sé e per i propri figli. Tanto che il sociologo polacco Zygmunt Bauman, fra le ultime declinazioni della globalizzazione, scrive di un mondo diviso fra turisti e vagabondi.
Se non si vuole ascrivere quest’umanità al fenomeno turistico, è bene innanzitutto guardare in faccia una realtà che a tutti gli effetti è un dramma di proporzioni epocali, prodotto di squilibri non naturali e col quale occorrerà fare i conti ancora a lungo.
Questo è già un primo elemento che fa temere il punto di rottura, se si pensa che fra coloro che si mettono nelle prime file della protesta c’è chi ha già dato prova di avere più a cuore la sorte dei tritoni di palazzo Specchi (cui è stato trovato un ricovero idoneo in un centro specializzato), rispetto a esseri umani ai quali non è rimasto altro che la vita, peraltro densa di ricordi che pesano come macigni.
Il problema è che le migliaia di sbarchi avvengono in un momento storico nel quale ciò che è percepito dalla pancia dei popoli europei non è più l’orizzonte di solo pochi anni fa. Conta poco se anche le paure della piccola comunità di Gorino siano più percepite che reali. Si rischia la discussione inconcludente fra la temperatura percepita rispetto a quella reale, durante il caldo martellante dell’estate.

E’ l’hic et nunc di un Occidente senza utopie, come scrivono nel loro libro Paolo Prodi e Massimo Cacciari (2016) e di un’Unione europea che sembra dilapidare le grandi ragioni della propria esistenza, preferendo compiacersi in atti di autoerotismo contabile, piuttosto che cogliere un’occasione storica per fare sintesi fra tradizioni laiche e religiose sul comune principio del rispetto per la vita e la dignità umana.
Come non vedere la clamorosa contraddizione del presidente francese Hollande, che sullo stretto della Manica cerca di farsi in quattro per favorire l’esodo dei migranti verso la Gran Bretagna (che nel frattempo ha scelto la Brexit invece della pur claudicante Europa), mentre con l’altra mano spedisce la gendarmeria ai confini con Ventimiglia per sigillare porte e finestre della Francia? Senza contare che ci stiamo assuefacendo anche all’indifferenza dei termini, quando è comunemente chiamata “Giungla” l’insediamento di Calais: nella giungla stanno gli animali e i selvaggi, a eccezione di Tarzan.

In questo contesto diversi osservatori prendono a prestito il linguaggio usato nei terremoti per dire che viviamo un tempo nel quale si stanno producendo pericolose faglie di paure e timori, che presagiscono tremendi scontri, prima o poi, tra le placche umane e sociali, mentre mai come ora ci sarebbe bisogno di soglie per facilitare incontri.
A complicare la scena contribuisce un Islam, che nell’atavico scontro sciiti-sunniti riporta in Europa gli spettri della lotta tra cattolici e luterani e della Guerra dei Trent’anni dopo la defenestrazione di Praga (1618). Religione che nella propria essenza, ricorda Paolo Prodi nello stesso libro scritto con Cacciari, fatica ad accettare la distinzione tra legge divina e legge umana e mette in discussione la laicità come conquista storica dell’Occidente.

In mezzo a un oggi desolatamente senza bussola, la politica sembra impotente ad andare oltre un contingente che affoga nell’emergenza. Ezio Mauro, ospite da Lilli Gruber, ha detto che c’è bisogno di risorse politiche.
Come anche il caso di Gorino pare dimostrare, non serve a un granché continuare a fare appelli alla buona volontà, ripetere il mantra della solidarietà e del multiculturalismo, se non si avverte che c’è un problema di domanda di protezione e di sicurezza, rispetto a un futuro percepito come sempre più incerto. Specie dalla parte più fragile della popolazione (anziani, persone sole, senza lavoro, precariato, periferie), che si trova il mondo rovesciato già sulla porta di casa.
Per l’ex direttore de La Repubblica, se la sinistra non si china sull’entità di questa inquietudine e se non si cerca una fuoriuscita democratica (attenzione all’aggettivo), allora l’unica soluzione diventa la “politica a specchio”, le cui stesse parole – muri, filo spinato, ruspe – non fanno che fissare un orizzonte di paura. Così ha buon gioco la destra che sta facendo breccia ovunque in Europa, che oppone slogan semplici a chi non riesce più a bucare lo schermo con il senso di responsabilità e con gli appelli a tenere botta in una situazione – nazionale e internazionale – che fa acqua da tutte le parti (devastante lo stallo tra potenze sospettose su Aleppo, mentre l’inerme popolazione civile è quotidianamente vittima di una strage).
Una destra, e non solo, che cavalca cinicamente la paura, incurante dei fuochi che accende e del suicidio a cui porta il piano inclinato dell’antipolitica.

Si percepisce l’avvicinarsi del punto di rottura, perché il fiume umano della disperazione fatalmente si infrange su un tornante storico nel quale l’ingresso non avviene nel paese dei balocchi, ma in un mondo in profonda crisi economica e di speranze. E le stesse dimensioni del fenomeno accrescono timori, insicurezze e ansia del caos. Ancor più quando la gestione dei flussi, per essere teneri, presenta margini di miglioramento evidenti, a cominciare da Bruxelles.
Se il mare in tempesta che abbiamo di fronte non è pura fantasia, un punto di appoggio lo ha indicato Enzo Bianchi nel suo libro “L’altro siamo noi” (2010).
L’altro siamo noi perché se si comincia a tracciare una linea per stabilire a chi riconoscere diritto di vivere, rispetto e dignità, allora la storia dimostra ampiamente che prima o poi può toccare a ciascuno di noi. Perché dipende sempre da chi traccia quella linea. E’ solo questione di tempo.
Se si comincia quindi a stare alla larga da chiunque pretenda di tracciare quella maledetta linea, è già un passo avanti che ciascuno fa innanzitutto nel proprio interesse.
Si viene poi a sapere (La Nuova Ferrara 27 ottobre) che nell’emergenza di Gorino, sindaci e amministratori, di notte, si sono messi alla guida di auto e pullmini, ciascuno col proprio carico di umanità bisognosa, alla ricerca di una sistemazione.
E’ un altro punto d’appoggio da non liquidare cinicamente come semplice buonismo, perché nel buio e nella concitazione di quell’emergenza possono nascere più cose che in decine d’interpellanze, con tanto di numero di protocollo. Quasi un’aritmetica e ostinata consapevolezza, come diceva Teresa di Calcutta, che se quella è solo una goccia nell’oceano, senza quell’aiuto all’oceano mancherebbe una goccia.

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Francesco Lavezzi

Laurea in Scienze politiche all’Università di Bologna, insegna Sociologia della religione all’Istituto di scienze religiose di Ferrara. Giornalista pubblicista, attualmente lavora all’ufficio stampa della Provincia di Ferrara. Pubblicazioni recenti: “La partecipazione di mons. Natale Mosconi al Concilio Vaticano II” (Ferrara 2013) e “Pepito Sbazzeguti. Cronache semiserie dei nostri tempi” (Ferrara 2013).


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