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di Roberta Trucco

A due mesi dal crollo del ponte Morandi Genova scenderà in piazza. La manifestazione si terrà il 13 ottobre alle ore 17 in piazza della Vittoria. È un’iniziativa che nasce dal basso, dai cittadini e da loro è stata chiamata ‘Riprendiamoci Genova’ (clicca QUI per scaricare la locandina dell’iniziativa).
Gli organizzatori, Camilla Ponzano di Riprendiamoci Genova, Andrea Acquarone di Che l’inse! e Filippo Biolé di EmerGente, scrivono nel manifesto: “Presi dalla vita di tutti i giorni, dai nostri fatti privati, ci siamo dimenticati di essere una città, una comunità, un popolo, che può e deve far sentire la sua voce. E pretendere di essere ascoltato […] No bandiere, no partiti, no grida e tifo da stadio, bensì: cittadini responsabili, impegno, idee, partecipazione, proposte e dialogo, sotto l’unica bandiera che ci unisce tutte/i, quella di Genova”.
Parole che mi risuonano dentro e che mi spingono a condividere ora quanto scrissi a pochi giorni dal crollo, probabilmente per elaborare il lutto. Abbiamo bisogno di noi. Non solo il ponte va ricostruito ma anche il dialogo tra diversi e all’interno delle comunità.

Agosto 2018
Sono partita per le vacanze nella dolorosa giornata del crollo del Ponte Morandi, partita con il cuore pesante per la tragedia annunciata che si è portata via tante vite giovani. Ero passata su quel maledetto ponte il giorno prima e, come molti altri genovesi, mi sento una sopravvissuta. Ho provato per giorni un misto di rabbia e di senso di colpa. Ogni volta che lo attraversavo ero inquieta. Quell’inquietudine oggi so che era autentica, non era il frutto di una fantasia un po’ paranoica, ma realmente un campanello d’allarme a cui avrei dovuto dare ascolto. Era il buon senso che bussava alla porta.
Sapevamo tutti delle continue manutenzioni. Da almeno un ventennio si parlava dell’aumento del traffico e del fatto che quel ponte non era stato progettato per sostenere un carico in continuo aumento. Negli ultimi anni nelle ore di punta quel ponte era sempre intasato, una lunga coda di tir e auto che procedevano a passo d’uomo. Se capitava di essere intrappolati lì per ore, convivere con l’ansia diventava un’impresa, credo per tutti. Un caro amico francese, che è venuto con la sua famiglia a trovarci, il giorno del crollo mi ha scritto per sapere come stavamo e mi ha raccontato che sia all’andata che al ritorno, alla fine del ponte, ha scherzato con il figlio dicendo “è andata bene, siamo dall’altra parte”. Un’amica giornalista che doveva essere intervistata dalla Bbc ha chiesto a diversi amici di dirle cosa rappresentava quel ponte per noi. Per molti era la via di casa al ritorno dalle vacanze, per molti il simbolo dell’orgoglio genovese, il nostro ponte di Brooklyn. Per me quel ponte era disagio, senso d’insicurezza, che da quando sono madre sento nel profondo. Sono una donna fortunata, ho una bella famiglia, una vita agiata e certo non mi posso lamentare, ma osservo sempre di più il declino della nostra civiltà. Abbiamo costruito ponti, ma non abbiamo educato alla convivenza tra diversi, al rispetto delle differenze, a partire da quelle di genere. Abbiamo scambiato l’omologazione per eguaglianza e con il passare del tempo ci siamo trovati immersi in un sistema capitalistico che ci alleva ‘come galline da batteria’. Le relazioni, la cura reciproca, la cura dell’ambiente, abbiamo abbandonato tutto nelle mani di Istituzioni e Servizi senza un volto, ma sappiamo bene che la cura è legata indissolubilmente al volto di chi la pratica: lo impariamo alla nascita nel primo incontro con il volto materno. Ci ritroviamo in un sistema malato, che ammorba le nostre coscienze.

Quel ponte per me rappresenta le contraddizioni del nostro sistema, un ponte necessario alla nostra comunità, un ponte che unisce la città divisa in due dalla val Polcevera, che unisce la nostra regione e l’Italia alla Francia, ma che nella furia della crescita sempre più rapida non ha tenuto conto dei tempi della cura e delle relazioni, subordinandole al profitto. Noi donne e madri lo sappiamo, il bene comune non è un progetto che si può costruire a tavolino, con formule matematiche, seguendo le logiche del profitto, ma deve tenere conto delle persone, delle relazioni e delle contingenze di ogni momento della vita. È venuto il tempo di dire che abbiamo bisogno di noi e delle nostra capacità di fare comunità.

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Redazione di Periscopio



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