di Diego Carrara
Chi pensava che il problema casa nel nostro paese fosse risolto per sempre, dopo che negli anni Novanta era stata abolita la Gescal (Gestione case per i lavoratori), si sbagliava. La pesante crisi, ancora in atto, ha confermato come il nuovo fabbisogno di casa sia all’ordine del giorno nel nostro paese, soprattutto per quei ceti sociali più fortemente colpiti dalla crisi stessa, la gran parte dei quali viveva e vive in affitto.
Bassi redditi, ulteriormente impoveriti, lavori precari, perdita del posto di lavoro, immigrazione, sfratti in rapido aumento, soprattutto – ma non solo – nelle grandi città, sono alcune delle caratteristiche che connotano la popolazione coinvolta nella questione abitativa odierna.
I numeri dell’emergenza abitativa sono contenuti in un recente studio che Nomisma ha prodotto per Federcasa, l’organizzazione che raggruppa i gestori del patrimonio pubblico, prima Iacp e oggi Aziende Casa, o comunque denominati.
Lo studio racconta come al di fuori dell’edilizia residenziale pubblica esista un disagio economico che ha coinvolto nel 2014 1,7 milioni di nuclei familiari in affitto (oltre 4 milioni di persone). Si tratta di famiglie che, versando oggi in una condizione di disagio abitativo (incidenza del canone sul reddito familiare superiore al 30%), corrono un concreto rischio di scivolamento verso forme di morosità e di possibile marginalizzazione sociale. Si tratta perlopiù di cittadini italiani (circa il 65%), distribuiti sul territorio nazionale in maniera più omogenea rispetto a quanto le recenti manifestazioni spingerebbero a far pensare. Se non vi sono dubbi che il fenomeno risulti più accentuato nei grandi centri, dall’analisi non sembrano emergere zone franche, con una diffusione che interessa anche capoluoghi di medie dimensioni e centri minori.
In tale quadro – prosegue lo studio – la dotazione di edilizia pubblica si conferma del tutto insufficiente, consentendo di salvaguardare poco più di 700.000 nuclei familiari, vale a dire 1/3 di quelli che versano in una situazione problematica. Rispetto al totale degli alloggi gestiti in locazione (circa 758 mila), nel 2013 risulta regolarmente assegnato l’86% degli alloggi su tutto il territorio nazionale (circa 652mila alloggi), mentre la restante quota del 14% risulta non assegnata o perché sfitta o perché occupata abusivamente.
Come si vede, il fatto che molti italiani (circa 75%) siano proprietari della casa e che l’intervento pubblico abbia prodotto un patrimonio di case popolari importante, ma largamente inferiore alla media europea e comunque oggi totalmente insufficiente a far fronte ai nuovi bisogni, dimostra appunto come quella scelta politica di puntare, dopo gli anni Novanta, quasi esclusivamente sul mercato, non abbia prodotto i risultati sperati.
Oggi le dimensioni del fenomeno portano con se’ anche una diffusa illegalità, che si traduce in occupazioni abusive sia negli alloggi di Edilizia Pubblica che in quella privata, sempre più difficili da gestire con tensioni sociali che coinvolgono interi quartieri di grandi città.
Che fare dunque?
Intanto sarebbe utile riprendere quella politica di investimenti pubblici per riportare il nostro patrimonio di edilizia pubblica a livello di quello europeo (per far fronte alla emergenza e alla pressione migratoria la Germania ha appena stanziato 1 miliardo di euro, mentre il nuovo Sindaco di Londra si è dato come priorità politica e sociale la costruzione di nuovi alloggi popolari); poi si rende necessario ripensare una politica della casa che vada di pari passo con una nuova politica urbanistica delle città e del territorio, che richiede minore consumo di suolo (negli ultimi 30 anni si sono persi 5 milioni di ettari di superficie agricola e siamo oltre il 40% di coste ricoperte dal cemento) e maggiori dosi di sostenibilità sociale.
Dunque la politica della casa va ripensata e rilanciata seguendo uno schema che non può più essere quello speculativo costituto sulla rendita patrimoniale, così come è successo negli ultimi 30 anni. In tal senso Vezio De Lucia, uno degli architetti più importanti del nostro paese, nel presentare un libro sulla emergenza abitativa “La casa negata” di Gaetano Lamanna (Ediesse edizioni), ci ricorda come sia necessario riprendere in mano “i temi generali e quelli specifici, la fiscalità, la tassazione immobiliare, la sempre più pressante domanda inevasa, l’esclusione abitativa, il nodo mai risolto del contenimento della rendita”. E ancora: “nella politica della casa il valore d’uso (l’abitazione come tetto, spazio domestico) ha finito con l’essere sostituito dal valore di scambio (la casa come funzione finanziaria, come veicolo di risparmio).”
Per fare questo servono soggetti istituzionali che siano in grado di programmare gli interventi in un lasso di tempo che evidentemente non può essere quello di una risposta all’emergenza abitativa dall’oggi al domani. Si deve ripensare al patrimonio immobiliare costruito (spesso in eccesso) e capire come cercare di recuperalo almeno parzialmente (sapendo che la qualità del costruito di questi ultimi decenni, anche nella nostra Provincia, è stata molto bassa, tanto da non rispondere a criteri minimi come quelli della legge antisismica del 2008, o quelli di una efficienza energetica dell’alloggio almeno di classe B, prevista dalla legge Regionale).
Le Regioni, che dopo la modifica del Titolo V hanno la competenza sulle politiche abitative, si sono dimostrate, a mio parere, non in grado di rispondere a questa nuova necessità programmatoria. A questo si aggiunga l’intervento dello Stato che ha tentato, ad esempio con il fallimentare Piano Casa del Governo Berlusconi, di mettere in discussione la competenza regionale, ripristinata però dalla Corte Costituzionale.
La scarsità di risorse ha certamente contribuito a rendere, quantitativamente e qualitativamente, poco incisiva l’azione delle Istituzioni regionali e degli Enti locali, anche se in questa difficile condizione alcuni progetti urbanistico/abitativi interessanti la Regione Emilia Romagna è riuscita a realizzarli in uno stretto rapporto con gli Enti locali e le Aziende Casa.
A Ferrara, in particolare, si sta andando verso il completamento del progetto di riqualificazione urbana del Quartiere Barco (storico quartiere di insediamento operaio ai margini del petrolchimico ferrarese) che ha tra i suoi obiettivi: l’aumento della qualità abitativa attraverso la demolizione e la ricostruzione di nuovi alloggi di edilizia residenziale pubblica con più elevati standard abitativi, l’eliminazione delle condizioni di abbandono delle aree centrali all’interno del quartiere attraverso il loro utilizzo per l’edificazione degli alloggi e l’aumento della dotazione di servizi del quartiere e la loro più equilibrata distribuzione. La consegna dei 76 nuovi alloggi in classe A di via Bentivoglio e il recupero delle palazzine di Via Gatti Casazza e Grosoli con altri 36 alloggi (in classe energetica B) sono tra gli ultimi stralci di questo rilevante intervento.
Lo stesso possiamo dire per alcuni interventi effettuati in provincia, in particolare nel comuni di Mesola (Palazzo Remy) e Comacchio (Piazza Roma e via Mazzini), dove aree degradate del centro storico sono state recuperate a standard abitativi di qualità, creando al contempo nuovi spazi abitativi, prima inesistenti.
Oggi l’ultima frontiera delle politiche abitative sembra essere divenuto il cosiddetto Social Housing, o per dirla nella nostra lingua l’edilizia residenziale sociale, uno strumento che – come nelle migliori esperienze Europee – dovrebbe servire a offrire un alloggio in affitto a canoni calmierati/concordati a quella fascia grigia della popolazione che non può accedere al mercato per il reddito troppo basso, ma al contempo nemmeno alle graduatorie di edilizia residenziale pubblica per un reddito ‘troppo alto’.
A Ferrara la struttura abitativa, di proprietà del Comune, di Via Gustavo Bianchi (con 43 alloggi), già ultimata e che verrà presentata venerdì 13 Maggio, è la prima nel suo genere nel territorio e dovrebbe rispondere a quei fabbisogni che venivano evidenziati sopra e che a Ferrara sembrano esserci, viste le numerose domande pervenute. La struttura dovrebbe offrire una buona qualità abitativa e consentire quei risparmi nella gestione dell’alloggio che migliorerebbero il reddito disponibile degli inquilini. E quindi la loro qualita’ di vita.
Certamente in questa fase di ripensamento delle politiche abitative avere a disposizione strutture di edilizia residenziale pubblica può produrre vantaggi anche per chi, in virtù delle modifiche normative regionali sulla permanenza negli alloggi pubblici, dovrebbe lasciare l’alloggio popolare e trasferirsi altrove , trovando qui una risposta adeguata anche in termini di quantificazione del canone.
Ma è chiaro come questa sia una risposta molto parziale, seppure di qualità, rispetto alla domanda che i cambiamenti in atto sembrano richiedere , nella consapevolezza che il buon governo urbanistico e’ la condizione per ridurre il disagio abitativo .
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