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Giorgio in questi giorni ha festeggiato il suo compleanno: è nato nel 1928, 87 anni fa. Ha fatto il falegname per 42 anni. Mostra la mano sinistra: “Questi sono il segno di riconoscimento per molti di noi”, dice mostrando tre dita senza falangi. Ha iniziato da giovane a imparare il mestiere: la mattina andava a scuola e il pomeriggio garzone a bottega, ma ha dovuto smettere presto di studiare perché doveva aiutare la famiglia a tirare avanti. “Non ricordo se a scuola si facesse qualcosa di particolare per Natale, in quegli anni c’era la guerra, avevamo altro a cui pensare”.

Suscita tenerezza mentre in dialetto spiega che non c’è molto da raccontare, perché prima della guerra il Natale era un piatto di tortellini con un po’ di brodo, una raviola e un pezzo di pane natalizio cotti nella stufa a legna di casa o nel forno del paese. Raviole e pane di Natale sono tipici dolci del ferrarese e del bolognese. Per le raviole si impastano farina, uova, burro, zucchero e lievito e una volta stesa la pasta si riempie con marmellata casalinga, facendo tanti fagottini da cuocere in forno. Si facevano per tempo e si conservavano gelosamente perché dovevano durare fin verso Sant’Antonio, che si festeggia il 17 gennaio. Il pane di Natale, variante casalinga del più celebre pampepato, viene preparato, secondo tradizione familiare, con farina, zucchero, cacao o marmellata di prugne a seconda delle ricette tramandate da generazioni, canditi, caffè e mandorle o arachidi. Dopo la cottura in forno viene bagnato con un liquore particolare e poi ricoperto di cioccolato fondente.
“I regali, quando li si riceveva, si facevano più per la Befana: erano qualche mandarino, qualche caramella o qualche zigàla. Non sai cos’erano vero? Erano dolcetti di zucchero che si trovavano solo in due o tre gusti”. Ma già così era più del solito: la miseria allora era tanta che bastavano queste piccole cose per fare festa e passato il Natale eravamo tristi perché era finito tutto”.

“Si faceva tutto in casa. Mi ricordo il piccolo presepe: per l’erba si raccoglieva il muschio in campagna lungo i fossi e le statuine erano di carta pesta, le facevano la mamma e il papà. Io ero il più piccolo di tre fratelli”. Aveva una sorella e un fratello più vecchi di lui, “a volte si discuteva per piccole questioni di invidia, perché si credeva che l’uno avesse ricevuto più dell’altro”.
“La mamma lavorava in campagna e il papà faceva il muratore. Abitavamo in una casa unica divisa in tre parti, con i nonni e i fratelli di mio papà. Il Natale lo passavamo un anno in casa da uno e un anno in casa dall’altro”. Spesso erano Giorgio, i suoi fratelli e sua mamma ad andare dai nonni o dagli zii, “il papà non c’era perché era all’estero a lavorare: è andato in Germania e persino in Africa”.
“È difficile spiegarlo a chi non lo ha vissuto: il Natale era più sentito di adesso, non si vedeva l’ora, ma c’erano meno segni esteriori. Solo dopo la guerra si è cominciato a festeggiarlo come si fa adesso”.

Leggi [qua] l’introduzione: Racconti dai Natali che furono per ritrovare lo spirito autentico delle feste

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Federica Pezzoli

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