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Uscì dall’appartamento di Rue Lamartìne n.334 accigliato più che mai. Non solo la sua prediletta Louise, la sedicenne dagli occhi verdi e le sopracciglia folte, con la sua voce rauca da donna vissuta e i seni ancora acerbi, era stata trasferita in chissà quale orribile bordello di Marsiglia. Nessuna delle donne aveva voluto rivelargli notizie utili a rintracciarla – ovvie ragioni commerciali, c’era da aspettarselo – ma quel che è peggio lui aveva ceduto alle loro lusinghe come un miserabile omuncolo: un paio di orrende troie quasi quarantenni erano riuscite a portarselo nella camera blu, quella del sesso estremo. Senza contare il mazzo di fiori che era rimasto lì, sul tavolino dell’ingresso, mentre le troie e la stessa Madame Trichet, dopo avergli sfilato ben trecento franchi,  ridacchiavano tra loro delle romanticherie del ridicolo professore tedesco. Ripetevano in coro: “Merci pour les roses et merci pour les chrysanthèmes”, senza riuscire a trattenere un sorrisetto malizioso. E lui non avrebbe più udito quelle meravigliose, ingenue, deliziose canzoncine francesi che Louise gli cantava all’orecchio nel segreto dell’alcova.
Coi capelli in disordine, lo sguardo vitreo, pallido come un fantasma in fuga, il professor Uberzeit  ritornò verso la stazione dolorante nel corpo e nello spirito. Stringeva forte nella mano il grande libro di Dostoevskij, come se solo certi abissi dell’anima russa potessero risollevarlo da quel senso di prostrazione profonda.
Durante il viaggio di ritorno quasi non dormì. Coi pochi soldi rimasti dopo aver pagato il biglietto del treno, comprò da uno dei rivenditori ambulanti che popolano la riviera un paio delle tanto decantate focaccine liguri per placare la fame e solo dopo un paio d’ore di viaggio si accinse ad affrontare ‘I fratelli Karamazov’.  Per leggere un romanzo di oltre mille pagine, per giunta nella traduzione francese, il professore avrebbe impiegato quasi un anno, a causa della tremenda miopia e delle emicranie che lo sforzo della lettura gli procurava regolarmente. Ma lui era dotato di una speciale intelligenza selettiva, grazie alla quale da pochi indizi era in grado di risalire alla trama di qualsiasi romanzo, e con il suo intuito da grande lettore sapeva cogliere al volo le scene e i dialoghi più significativi. Nel caso in questione poi era facilitato dai titoli che illustravano ogni capitolo.
Ben presto, nonostante gli scossoni del treno sui binari e la poca luce, capì che in sostanza la vicenda era incentrata su un orribile vecchio tirchio e lascivo che era stato ucciso, così pareva, da uno dei suoi tre figli. O forse dal quarto, quello illegittimo, sul momento non ricordava. Ma il professore non era interessato a scoprire l’assassino quanto alle dissertazioni filosofiche del figlio Ivan, l’intellettuale della famiglia, il nichilista intelligente. Aveva già letto ‘I demoni’, sempre dello stesso autore, ed era rimasto impressionato dall’affinità sotterranea di certe idee con le sue, quelle  stesse idee inaudite che ormai si facevano sempre più limpide nella sua mente e che presto avrebbe proposto al mondo in una raccolta di aforismi di prossima pubblicazione. Ma certi dialoghi di Ivan Karamazov con il fratello Alesa e ancora altri brani, specialmente verso la fine del romanzo, toccavano delle vette che mai fino a quel momento altri scrittori avevano raggiunto. Quei dialoghi lo stimolavano, lo inquietavano e lo avrebbero costretto a rivedere certi suoi aforismi sulla morte di Dio e sulla potenza del caos.
Tornato a Torino, nel silenzio della sua casa, si riposò per un’intera giornata e riuscì perfino a dormire per alcune ore grazie a una potente dose di cloralio idrato, al quale ricorreva sempre più spesso per evitare di assumere dosi eccessive di oppio. Dopo essersi alzato si preparò un bricco di tè forte e sdraiato in poltrona davanti al fuoco del camino riprese a sfogliare qua e là ‘I fratelli Karamazov’. Alla fine dell’undicesimo libro, intitolato ‘Il fratello Ivan Karamazov’, si imbatté in un dialogo allucinante tra lo stesso Ivan e un personaggio che ben presto si sarebbe rivelato come una delle tante incarnazioni di Satana. Quell’apparizione lo colse di sorpresa, come fosse qualcosa che inconsciamente andava cercando da tempo, e sprofondò nella lettura.
Fu colpito soprattutto dal tono mellifluo, dalla gentilezza insinuante, che spesso scadeva in servilismo ipocrita, dell’ospite di Ivan Karamazov. Un dialogo così inquietante – bisogna dire che Uberzeit ultimamente era diventato molto, troppo impressionabile – che si vide costretto a interrompere la lettura. Anche perché il mal di testa e la miopia combinate insieme producevano uno strano fenomeno: i caratteri di stampa si curvavano e si deformavano fino a diventare illeggibili. Allora andava al vecchio pianoforte a parete che aveva preso in affitto ed eseguiva certe romanze di Wagner che conosceva a memoria o altri pezzi di sua composizione per poi riprendere la lettura.
Quando mancava poco alla fine del capitolo decise di concedersi un’ultima pausa. Ma mentre eseguiva al pianoforte una variazione del Tannhauser, ebbe l’impressione che l’accordatura non fosse perfetta. Eseguì un paio di scale e  scoprì che un la e ben due tasti neri – per l’esattezza un fa diesis e un si bemolle – emettevano un suono sordo e stridente. Decise di non lasciarsi vincere dalla malasorte – con quali soldi avrebbe mai potuto pagare un accordatore? – e ripiegò su una sua composizione degli anni universitari, una specie di inno alla giovinezza ispirato alla nona di Beethoven. Trovò anche lo spirito giusto per tentare subito dopo un’improvvisazione su un preludio di Chopin, un brano che suonava sempre da ragazzo, e si azzardò perfino a intonare con voce incerta la melodia. Era così rapito dalla musica che alcune lacrime cominciarono a scorrergli lungo le guance – gli succedeva spesso di fronte alla bellezza – ma ben presto incappò in un intero accordo di re settima diminuita completamente sballato. Imprecò in tedesco stretto contro il pianoforte e lo richiuse di botto. Non gli restava che tornare alla lettura del maledetto russo.
Ed ecco che il diavolo, o quella sua miserabile incarnazione borghese, si mette a spiegare, parodiando il povero Ivan Karamazov, che questo uomo nuovo a cui tutto è permesso, l’Uomo-Dio, dall’alto della sua superiorità potrà infischiarsene di qualunque morale nonché del bene e del male. Ma la ferocia nichilista che si abbatterà sull’umanità tutta sarà alla fine riscattata dall’avvento di una nuova era, l’era dell’amore universale. Purtroppo però, aggiunge il diavolo con un ghigno beffardo, è difficile prevedere quando questa fantastica era arriverà. E allora Ivan, sconvolto da quel ghigno, gli lancia addosso il bicchiere ricolmo di tè. Di fronte a quella scena grottesca il professor Uberzeit sobbalzò. All’improvviso gli fu chiaro fino a che punto quel mascalzone epilettico si fosse impossessato delle sue idee. Non solo, ma dopo essersene impossessato, in un certo senso gliele stava sbattendo in faccia, mettendole in parodia. Il paradosso più perverso poi stava nella trasformazione finale di quello scrittore russo in un disgustoso predicatore bigotto baciapile. Di quelli che si sdraiano in terra in chiesa e picchiano il capo sul pavimento davanti al crocifisso fino a rincretinirsi completamente.
In sostanza tra le righe gli stava dicendo: “Guarda, caro mio, che con tutte queste tue belle idee rivoluzionarie e distruttive otterrai soltanto di gettare nel panico l’umanità, in un vuoto e in un’angoscia dai quali i più crederanno di salvarsi solo con delle religioni ancora più fanatiche e superstiziose. E i politici ne approfitteranno per instaurare mostruose dittature che negheranno agli individui ogni libertà.”
Fu assalito da un’ondata di panico: qualcuno lo aveva anticipato per poi beffarlo, come se Satana si fosse scomodato a salire tra gli umani solo per dimostrare che il cosiddetto Uomo superiore non aveva capito niente e che, a ben vedere, Gesù Cristo, dalla sua scomoda posizione appeso ad una croce, in realtà era uno che la sapeva lunga. E un giorno tutti i detrattori del cristianesimo si sarebbero amaramente pentiti della loro presunzione. Quel russo, prendendo a prestito le sue idee e poi ridicolizzandole, lo aveva ridotto, lui, Uberzeit, a una specie di pagliaccio.
Tornò furioso al pianoforte, ma fin dal primo tocco uscirono dai tasti solo dei miagolii lamentosi, lugubri, che neanche un gatto sotto tortura avrebbe potuto emettere. A quel punto non poté trattenersi dall’urlare oscenità blasfeme indegne di lui, come se un essere di inimmaginabile  volgarità si fosse impadronito della sua anima. Quand’ecco che, proprio come poco prima era accaduto nel romanzo di Dostoevskij, qualcuno bussò alla porta d’ingresso.
Uberzeit riceveva pochissimi visitatori, e meno che mai a sorpresa. Si avvicinò circospetto alla porta d’ingresso e chiese chi fosse:
“Sono l’accordatore. Sono venuto per il pianoforte.” disse una voce maschile in perfetto tedesco.
“Io non ho chiamato nessun accordatore. Chi le ha detto di venire da me?” replicò il professore temendo qualche scherzo di un suo ex studente o, peggio, qualche ladro.
“Sono stato chiamato da un suo vicino di casa. Un suo ammiratore che non ne poteva più di sentire così deformata e straziata quella divina musica tedesca.”
Uberzeit si lisciò i baffi. Un suo ammiratore! Possibile che qualcuno davvero l’ammirasse? Dopo essersi sentito il pagliaccio del secolo, fu attraversato da una ondata di puerile vanità. Mise da parte ogni sospetto e aprì la porta.
“Prego, si accomodi” disse, dimenticandosi di non avere i soldi per pagare un accordatore.
Il visitatore entrò velocemente in ingresso e dopo una rapida occhiata in giro disse: “Ah, ecco qua il nostro pianoforte!” e zoppicando si diresse in salotto. Il professore lo guardò sconcertato. L’uomo indossava un vestito marrone a quadretti piuttosto logoro e striminzito e un cappello tondo dalla forma simile a un elmetto militare. A ben vedere però piuttosto che zoppicare sembrava che scivolasse sul pavimento tenendo il piede sinistro sollevato, come se stesse salendo un gradino inesistente. Non saltellava sul piede destro, come sarebbe stato naturale in quella posizione, ma piuttosto  scivolava come se pattinasse.
Ma la visione più sbalorditiva fu quella della donna al suo seguito, che l’accordatore si limitò a presentare dicendo: “Louise, la mia aiutante.”
Questa aiutante, alta più del professore, sui trent’anni, dal seno prorompente e quasi del tutto scoperto, coi capelli biondo oro che si inanellavano fino ai fianchi, indossava una tunica rossa a pieghe, simile a quella di certe ancelle greche, che arrivava appena sotto l’inguine.
“Molto lieta” disse in ottimo tedesco la donna con voce bassa, quasi virile.
I due entrarono nel salotto del professore come se fossero di casa e si piazzarono ai lati del pianoforte borbottando qualcosa di incomprensibile. L’accordatore si sedette sullo sgabello, si fregò le mani, poi si fece scrocchiare le dita una ad una e cominciò a eseguire una scala di do.
“Che disastro! – esclamò – Cosa è successo? Sembra che ci sia finito un gatto qua dentro!” e gli scappò una risatina.
Alzò il coperchio con fare prudente e si sporse sul bordo.
“Guarda, guarda… – disse, e lentamente tirò fuori da lì sotto uno strano oggetto nerastro che il professore, a causa della miopia, non riuscì a mettere a fuoco – Altroché gatto, caro Herr Professor! Questo è un topo, e per giunta un topo molto puzzolente!”
Tenendolo sollevato per la coda lo mostrò a Uberzeit, il quale alla vista di quella bestiolina martoriata dai tasti del pianoforte sembrò sconvolto.
“E’ orribile! – esclamò – Io ho fatto questo a quel povero innocente, innocuo animaletto? Come ho potuto!” e sembrava quasi sul punto di scoppiare in lacrime.
L’accordatore lo fissò sconcertato. Poi, in tono severo disse:
“Suvvia, professore! Non mi sembra il caso di prendersela così a cuore per un miserabile topo. Che per giunta non mi sembra tanto innocuo, dato l’odore che manda!” Si tappò il naso con gesto plateale e lo porse alla sua aiutante.
“Eliminalo, Louise!” ordinò. Intanto la stanza si era riempita di un fetore intollerabile, e Zeitsehen  si chiedeva come mai non si fosse accorto prima di quel tanfo così penetrante.
La donna ancheggiando aprì la finestra e tenendolo sempre per la coda lanciò il topo giù di sotto. Poi chiuse la finestra, si strofinò le mani, sorrise ai presenti e si accomodò accavallando le gambe su uno stretto divano a pochi passi dal professore. Il quale, nonostante la miopia, non poté fare a meno di intravedere qualcosa di molto femminile balenare tra le sue cosce. Evidentemente l’aiutante dell’accordatore non indossava biancheria intima. Cominciò a sudare freddo e non riuscì a dire nulla, anche se avrebbe voluto. L’emicrania gli scese giù lungo la spina dorsale e gli provocò un atroce mal di schiena.
“Vediamo ora come va” disse tranquillo l’accordatore, e con piglio sicuro attaccò la celebre sonata di Beethoven nota come ‘L’appassionata’.
Mentre ascoltava il professore pensò: “Questo non è un accordatore, questo è un pianista di talento…” e intanto si andava chiedendo chi fosse davvero quella donna, così bella e così volgare, con quella voce maschile, seduta sul suo divanetto…
“Tutto a posto, Herr Professor – esclamò l’accordatore alzandosi di scatto e dirigendosi con la mano tesa verso Uberzeit – Adesso può suonare quello che vuole, per la gioia sua e del vicinato” e mentre gli parlava lo fissò in un modo strano, come se il suo sguardo si divaricasse e le pupille finissero col concentrarsi sulle orecchie e non sugli occhi dell’interlocutore. Eppure quell’uomo non era strabico.
“Non so quanto le devo…” farfugliò il professore.
“Lei mi deve molto, ma non mi dia nulla – replicò quello sfilandosi dalla tasca dei pantaloni un paio di occhiali da sole dalla montatura di corno e indossandoli – Anch’io sono un suo ammiratore. E naturalmente anche Louise…” e sorrise di un ghigno largo e gelido. “Noi amiamo, anzi, adoriamo la musica. Specialmente quella tedesca.”
“Ma lei ha lavorato per me e appena possibile io farò recapitare il dovuto a… a chi devo l’onore?”
“Mi chiami pure Ivan l’accordatore. Sempre a sua disposizione per sistemare e intonare tutto ciò che è rotto o stonato. Ma glielo ripeto: non si preoccupi di parcelle o compensi. A me basta sapere, caro Herr professor, che lei non rinuncerà mai alla sua arte e alle sue idee e non si lascerà intimorire. Perché lei è un grande uomo, io lo so, ma pochi lo sanno. Forse lo sappiamo solo io e Louise. Soprattutto non tema l’impopolarità. Anche quando tutti la giudicheranno un pazzo, bè, quello sarà il momento della sua massima gloria.”
Gli strinse la mano e uscì scivolando sul pavimento sempre con il piede sinistro sollevato. Louise gli si avvicinò e con un inchino gli afferrò la mano e gliela baciò.
“Guten Weinachten, Herr Professor” disse augurandogli il buon natale con una splendida pronuncia tedesca. Poi, sempre ancheggiando, uscì richiudendosi la porta alle spalle.
Uberzeit si era dimenticato che era il 25 dicembre. Rimase a fissare con terrore crescente la porta d’ingresso chiusa. Era davvero dotato di capacità profetiche e capì che stava succedendo a lui quello che era successo al povero Ivan Karamazov. Non poteva sbagliarsi. Perché nulla più era affidato al caso, ma tutto era stato già prestabilito, anche il più imprevedibile degli eventi. Appoggiò la testa alla parete e poi cadde in ginocchio. Avrebbe voluto piangere, ma non ci riuscì. Invece vomitò a lungo, credendo che sarebbe morto lì, davanti alla porta d’ingresso. Ma non morì. Si trascinò fino al suo letto e si addormentò di schianto di un sonno pesante e agitato. Non riusciva a svegliarsi dai suoi incubi. Ricordi del bordello di Nizza si mescolavano con le immagini del topo morto, ma su tutto campeggiava la figura di Louise. Non la delicata puttanella dagli occhi verdi ormai perduta, ma la provocante donna dalla voce virile e dalla tunica rossa uscita poche ore prima dal suo appartamento.

(continua)

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Sergio Kraisky



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