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Il 25 Novembre è morto nella sua casa al VI arrondissement di Parigi l’ottantatreenne fotografo di origine inglese David Hamilton. Ufficialmente la morte è da ricondursi ad un cocktail di farmaci e, sembra, ad una busta in plastica che si era messo in testa prima di stordirsi e cercare la morte. Si tratta infatti di suicidio. Un suicidio che segue di pochissimo tempo l’uscita del libro “Consolation” della celebre conduttrice francese Flavie Flament nel quale accusava “un celebre fotografo” di averla violentata a tredici anni. Il fatto che la Flament avesse posato bambina per Hamilton ha facilitato la scoperta del nome del presunto stupratore.

Qualche giorno dopo l’uscita del libro, altre donne hanno testimoniato al settimanale L’Obs di essere state violentate da Hamilton negli anni ’80. Hamilton ha sempre negato qualsiasi coinvolgimento, pubblicando anche un comunicato nel quale diceva che “L’istigatrice di questo linciaggio mediatico cerca il suo ultimo quarto d’ora di gloria. Sporgerò diverse denunce nei prossimi giorni”. Il suo suicidio invece ha tolto definitivamente la possibilità di far chiarezza sui fatti denunciati.

Ne parlo con una amica che abita a Parigi, la quale mi conferma che della vicenda se ne parla parecchio trattandosi lei di un noto volto della tv francese. Mi dice che addirittura Laurence Rossignol, ministra della Famiglia della Infanzia e dei Diritti delle Donne, aveva dato incarico alla stessa Flament di comporre una commissione per rivedere la prescrizione per il reato di pedofilia (la Flament infatti non ha potuto denunciare Hamilton in quanto il reato risultava prescritto). Sembrava che il mostro finalmente fosse stato incastrato ma, come è tipico del pedofilo che vuole il controllo assoluto sulle proprie vittime, Hamilton ha deciso di imporre loro il silenzio, come da bambine, uccidendosi. “La dinamica -racconta Flavie- era sempre la stessa: ragazzine di dodici o tredici anni, conosciute in strada o in spiaggia, e ricevute nel suo studio con il benestare delle madri. Prima ci fotografava e poi ci stuprava”.

“Siamo solo tre al mondo ad aver trattato la ricerca dell’innocenza e la bellezza delle giovani donne: io, Balthus e Nabokov”, amava ripetere. Le sue foto, dai contorni soffusi e quasi romantici, ritraevano ossessivamente bambine, preferibilmente bionde e con gli occhi azzurri, in pose lascive ed ingenuamente ammiccanti, come delle ninfette, all’epoca considerate artistiche, vennero raccolte in diversi libri, esposte in frequentatissime mostre, stampate in cartoline e magliette. Non si può non riflettere su quanto cambi la coscienza sociale, ed artistica, nei diversi periodi storici, e se negli anni settanta i ritratti di Hamilton che gli regalarono fama mondiale erano definiti come “arte”, per la sensibilità moderna maggioritaria non sono altro che pedopornografia.

Le Opere d’arte dai contenuti sessualmente espliciti prodotte in occidente prima del XX secolo come “L’origine du monde” (1866) di Gustave Coubert, che rappresenta una vulva femminile, non erano destinate all’esposizione pubblica. Il giudizio se un particolare lavoro è più artistico o più pornografico rimane, alla fine, del tutto soggettivo a seconda del momento storico e della cultura di appartenenza; alcuni individui giudicano ogni manifestazione del corpo nudo come inaccettabile, mentre altri possono trovare nell’arte erotica dei grandi meriti artistici.

Catherine Breillan, sceneggiatrice nel 1977 del film Bilitis, girato da Hamilton nella veste di regista, e che racconta le avventure erotiche di una ragazzina diciassettenne, esprime dolore per la morte del fotografo dicendo che: “era ossessionato dalla fotografia più che dalle bambine”. Come se l’amore per l’arte potesse giustificare tutto. Rimane il fatto che, alla luce di quanto emerso dalla denuncia di tante ex modelle bambine, guardando i ritratti “artistici” di David Hamilton non si può non provare un brivido di orrore per l’ennesima strumentalizzazione crudele che si fa del corpo e dell’anima di bambini innocenti.

Alla vicenda poi si aggiunge orrore nell’orrore se si pensa che ad accompagnare le giovani vittime dall’orco erano le madri stesse: “veniva ad aprire la porta dello studio nudo e con la macchina fotografica a tracolla”, dice Flavie, ”una situazione che avrebbe fatto inorridire qualsiasi madre degna di questo nome”.

Bambine vendute per fame di notorietà, per ignoranza, per arte…ma si può veramente giustificare ogni cosa che si accompagni all’aggettivo “artistico”?

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Simona Gautieri



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