Il ragazzo entrò nel locale, aveva la chitarra, guardava per terra e non salutò nessuno. Salì sul palco tra l’indifferenza generale, si mise a sedere sull’unica sedia al centro e cominciò a suonare. La musica può cambiarti la giornata, a volte pure la vita, succede.
Successe anche a quel ragazzo che scriveva poesie, che ci metteva le note della sua chitarra country e che ne ricavò ballate folk che piacquero ai tipi del locale, e non solo. Piacquero parecchio, e il ragazzo fece strada, e tutto questo non fu scontato.
Erano gli anni sessanta, le sue parole erano ruvide, amare, non raccontava la spensieratezza dell’amore giovane come facevano gli altri. Le sue canzoni parlavano di solitudine, di rassegnazione e del dolore degli amori consumati, consumati dalla noia, dall’insofferenza della vita. E tutto questo non fu affatto scontato.
“Abbandonati donna, abbandonati” dice l’uomo alla sua compagna, senza dolcezza ma con sincerità. Com’è sincera la rabbia dell’eroe nero e innocente contro la legge bianca e razzista di quell’America di cinquant’anni fa, che prima lo condanna distruggendolo e poi lo assolve senza chiedergli scusa. Com’è sincero il vagabondo che chiede al mago di portarlo con sé, in un mondo di sogni e fantasie, lontano dal dolore dell’ennesimo mattino vissuto tra i marciapiedi…
Il ragazzo ne ha fatta di strada, raccontando un mondo amaro come il caffè preso senza zucchero, buono per alcuni e cattivo per altri. “Ma il mondo è questo, prendere o lasciare” sembra ribadire il ragazzo.
Pare che avesse ragione lui, molti hanno capito, e non era per niente scontato.
Lay Lady Lay (Bob Dylan, 1969)
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Carlo Tassi
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