L’INTERVISTA
“Il mio romanzo-verità sul Medioriente”. Parla il militare pacifista che ama Grossman e De Andrè
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Il nome deriva dall’inchiostro utilizzato per tracciarla sulla mappa geografica: ‘linea verde’, così viene chiamato il confine che separa Israele dai territori palestinesi occupati. Proprio da questa linea prende il titolo il primo romanzo di Francesco Diodati, classe 1956, originario di Spezzano Albanese in Calabria, ferrarese di adozione, ufficiale dell’esercito italiano da poco transitato nelle riserve: “La linea verde” (Feltrinelli).
Ci ha lavorato per due anni e dopo molti rifiuti è riuscito a pubblicarlo da esordiente partecipando al concorso del portale ilmiolibro.it (oltre a Feltrinelli, fra i partner ci sono L’Espresso e la Scuola Holden), di cui ha vinto l’edizione 2012-13 nella sezione gialli-noir.
“La linea verde” parte dalla domanda: c’è una possibilità di pace per israeliani e palestinesi? “Il cuore mi porterebbe a dire sì, ma la ragione mi dice di no, che è ancora troppo presto purtroppo”, risponde Francesco. Anche il suo romanzo è diviso fra cinismo e sentimenti, fra chi si batte per il processo di pace e chi, su entrambi i fronti, è pronto a tutto pur di proteggere ciò in cui crede, anche a ricorrere a mezzi illeciti. Il romanzo di Francesco usa la vicenda della corrispondente Susan Foster per far conoscere ai più le vicende e le contraddizioni passate e presenti della Città Santa e del conflitto israelo-palestinese.
Francesco nel tuo libro si intrecciano diversi filoni, o meglio colori: oltre alla linea verde del titolo, c’è il giallo della spy story, c’è il rosso di cui è insanguinata da decenni, per non dire da secoli, la Terra Santa, c’è il rosa dei sentimenti e c’è anche il grigio dell’ambiguità che vela una realtà nella quale non ti puoi fidare di nessuno e niente è come sembra.
In effetti è così, hai centrato il senso del volume: in realtà sono tre libri in uno. C’è la parte storica, improntata sul conflitto israelo-palestinese, c’è una storia d’amore e poi c’è la spy story. “La linea verde” è nato perché volevo parlare del conflitto fra israeliani e palestinesi, che secondo me è, almeno in parte, alla radice di quello che sta succedendo oggi nel mondo, anche solo per il fatto che alcuni la prendono come pretesto, come alibi per le proprie azioni.
Volevo parlare di questa delicata e intricata faccenda che si trascina da almeno un secolo, dall’inizio del Novecento se non dalla fine dell’Ottocento, ma non sarei stato in grado di scrivere un saggio storico, perché non ho le competenze. Perciò ho considerato il conflitto israelo-palestinese come sfondo reale di una storia inventata: quella della giovane, ambiziosa giornalista Susan Foster che viene catapultata a Gerusalemme come corrispondente perché il suo mentore la convince ad andare al suo posto. Quindi è attraverso gli occhi di Susan, fra le pieghe della sua vicenda, che si intravvede la storia e la realtà di quei luoghi.
Perché ti interessa così tanto parlare dei conflitto israelo-palestinese?
Perché a modo mio voglio dare una mano, di far conoscere ai più questo problema. Se ne sa pochissimo, pochi hanno la voglia di approfondire veramente questo intreccio e queste problematiche ormai inestricabili, e quel poco che si conosce spesso si fa finta di non saperlo. Quello che vorrei stimolare è proprio una curiosità, la ricerca del perché esistono queste vicende.
Entrambe le parti non sono scevre da responsabilità, ma certo non nascondo che a mio parere chi oggi è oppresso è il popolo palestinese. Se domani saranno gli israeliani, sarò con gli israeliani.
Qual è la linea verde di cui si parla nel titolo?
È la linea di confine separa Israele dai territori abitati dai palestinesi, occupati durante la Guerra dei Sei giorni del 1967: Cisgiordania e Gerusalemme Est. Territori ‘occupati’ perché nonostante diverse risoluzioni dell’Onu Israele non si mai ritirato e anzi ha continuato a costruire insediamenti.
Susan sembra essere l’unica a riuscire a muoversi attraverso la linea verde…
Sì, quando arriva è animata dal desiderio di raccontare la realtà in maniera equidistante, però mano a mano che scrive i suoi articoli e le storie in cui si imbatte si rende conto che il popolo oppresso sono i Palestinesi e lo fa trasparire nel suo lavoro. Questa è la prima parte della storia, che termina quando lei rimane coinvolta suo malgrado in oscure trame di potere dei servizi segreti israeliani e paga un caro prezzo, per cui se ne torna in America con l’intenzione di non far più ritorno in Terra Santa. Nella seconda parte, invece, farà ritorno a Gerusalemme perché capirà che le ferite si possono rimarginare solo lì dove sono state originate: è da questo momento che abbraccia apertamente la causa palestinese, cercando di fare tutto ciò che può per favorire il processo di pace.
“La linea verde” è il tuo primo romanzo: quanto ci hai lavorato e come ti sei documentato? So che hai fatto parte dell’esercito, la tua è stata un’esperienza sul campo?
Ho lavorato al libro dal 2008 al 2010, svolgendo un grande lavoro di ricerca. È proprio per questo che molti come te mi chiedono se sono stato nei luoghi che descrivo, ma non è così: non sono stato a Gerusalemme, però mi sono basato sulle testimonianze di chi ha vissuto quei territori e l’atmosfera che si respira.
Come hai lavorato sui personaggi? Ti sei ispirato a persone reali?
I protagonisti, Susan Foster e il suo compagno israeliano, sono completamente inventati. C’è invece un personaggio che incarna quella che per me è la speranza per questa terra, si chiama Aaron Avnery e nel libro è l’astro nascente della politica israeliana, colui che con la fermezza delle proprie idee, con la propria tolleranza, sembra riuscire a smuovere le coscienze di molti israeliani. Ecco per Aaron mi sono ispirato al famoso scrittore israeliano David Grossman, chi segue lui e il suo lavoro non può non riconoscerlo.
Possiamo aprire una piccola parentesi sulla realtà? Abbiamo già accennato al fatto che hai passato gran parte della tua vita professionale nell’esercito, qual è la tua opinione sui recenti tragici avvenimenti di Parigi e sulle reazioni che stanno seguendo?
Non è facile fare un’analisi esaustiva. Quello che mi sento di dire è: bisogna fare attenzione quando succedono fatti come quelli di Parigi perché non tutto è quello che sembra, anzi in questi casi quasi mai ciò che sembra è quel che è. Dietro questi atti e questi cani sciolti, che sono carne da macello a cui fanno il lavaggio del cervello, pare che ci sia l’Isis, ma fermiamoci un attimo e chiediamoci: conveniva all’Isis fare quello che ha fatto, quando il giorno dopo la Francia ha invocato una coalizione internazionale e, insieme alla Russia, ha iniziato a bombardare la capitale Raqqa? Quando succedono questi episodi non sempre è sufficiente ascoltare i telegiornali, bisogna leggere i giornali e informarsi anche su internet, e poi bisogna sempre tenere a mente che è come con un prestigiatore: attrae l’attenzione del pubblico sulla mano destra, mentre con la sinistra esegue il trucco del gioco di prestigio. Ci siamo chiesti se si vuole distogliere la nostra attenzione?
E per quanto riguarda l’intervento armato?
Ora come ora l’Isis certo in qualche modo va fermato, ma non basta l’intervento armato. Contestualmente deve essere fatta un’azione diplomatica che non può partire dall’Europa, perché come in altri campi dal punto di vista diplomatico non c’è unità d’intenti, come stiamo vedendo.
Avviandoci verso la conclusione alleggeriamo un po’ l’atmosfera. Oltre alla scrittura, hai altre due passioni: il calcio, ma soprattutto Fabrizio De Andrè.
Sì, ho praticato il calcio a livello agonistico fino a 35 anni e poi ho seguito mio figlio, ora mi limito a guardarlo. De Andrè, invece, è una passione che dura dall’adolescenza: i suoi primi dischi non li compravo nemmeno io, ma ascoltavo quelli dei miei cugini perché ero ancora troppo piccolo. Mi dovevo far perdonare qualcosa, un rimorso che rimarrà per sempre tale: non l’ho mai ascoltato suonare dal vivo. Quando il suo ultimo tour “Anime salve” fece tappa a Ferrara avevo preso da tempo un impegno molto importante, ma sapevo che avrebbe suonato anche qui vicino, mi pare a Padova, perciò non andai convinto di ascoltarlo in quel concerto. Purtroppo la tournée fu sospesa e la tappa successiva venne annullata perché Fabrizio aveva già problemi di salute. Ci ho rimuginato per anni e anni; dato che strimpello un po’ la chitarra e canto abbastanza bene, ho sempre pensato che mi sarebbe piaciuto fare una serata per ricordare Fabrizio De Andrè, ma non sapevo come fare. Poi ho incontrato un violinista gli ho parlato della mia idea e lui si è offerto di darmi una mano; così in due anni sono riuscito a trovare uno a uno questi ragazzi, molto più giovani di me, ma che condividevano questo mio progetto di una serata come tributo a De Andrè. Alla fine eravamo in 11. Il 17 settembre 2011 abbiamo debuttato alla Sala Estense, avrebbe dovuto essere la nostra prima e unica serata, ma ci siamo chiesti perché fermarci lì: dopo due anni di serate siamo stati insigniti da Dori Ghezzi e dalla Fondazione Fabrizio De Andrè dell’importante riconoscimento di tribute band ufficiale.
L’ultima domanda è: continuerai a fare lo scrittore?
L’idea ci sarebbe e ho già iniziato le prime pagine di un nuovo eventuale romanzo, ma scrivere per quanto mi riguarda è molto faticoso, soprattutto per il lavoro di ricerca che mi prende moltissime energie. Come con “La linea verde” vorrei prendere spunto da accadimenti storici per costruirci sopra una trama inventata: questa volta tratterei una vicenda ci riguarda più da vicino, la prima colonizzazione italiana in Africa a fine Ottocento, in Somalia ed Eritrea.
Foto di Aldo Gessi
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Federica Pezzoli
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