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Ho conosciuto Vitaliano Padovani quando avevo 26 anni. Lui era segretario della FIOM, io ero laureata da pochi anni; respiravo l’aria del tempo come tutti, il fascino che esercitava il sindacato aveva alle spalle empatia e curiosità, ma di sicuro poca consapevolezza e nessuna traccia di appartenenza ideologica. L’espressione classe operaia permeava allora le aule delle università, era molto diffusa sulla stampa e nei discorsi sociali, ma era lontana dalla mia esperienza familiare e personale. Padovani era un uomo solido e pragmatico, incuteva rispetto, in me certo soggezione. Aveva un’aria severa, ma poteva regalarti anche un sorriso benevolo talvolta. Io avevo già una bambina piccola, talvolta la portavo con me e lei correva portando scompiglio nel grande atrio della FLM.

Padovani – lo chiamavamo tutti per cognome – soprattutto, per la soggezione che avevamo di lui – sorrideva bonario per quelle incursioni. Ma nelle riunioni ufficiali eravamo tutti attenti e un po’ timorosi. Appena arrivata, mi aveva affidato l’incarico dell’ufficio studi. Ma dopo pochissimi mesi gli avevo detto: “io sono qui per vedere le fabbriche” e lui – non ho mai saputo se per sfida o per incoscienza – mi aveva affidato il compito di seguire l’inquadramento unico del comparto delle fonderie nel centese. Sarebbe apparsa una follia a chiunque: il centese era un luogo difficile (l’ostilità verso Ferrara rendeva ogni contatto faticoso e ogni coordinamento quasi impossibile), le fonderie avevano problemi veri, scrivere un contratto aziendale sull’inquadramento unico era un’impresa soprattutto se non avevi nessuna idea, anche remota, del processo produttivo. Mi hanno salvato l’incoscienza e la pazienza degli operai della fonderia, forse commossi da una ragazza coraggiosa ma dall’aria fragile. E’ stata una esperienza importante che ho portato sempre con me. Con loro ho capito che cosa è l’anima – un termine centrale per descrivere il processo produttivo di una fonderia. L’anima – mi spiegavano – è come le formine in cui i bambini mettono la sabbia al mare.

L’anima come forma delle cose quindi. Ero riuscita a descrivere alla fine le loro mansioni e a pesarle in qualche modo in termini di competenze. Quando ho terminato la mia esperienza alla FLM, un compagno anziano aveva detto che io avevo dato loro le parole che non avevano per dire le cose che facevano ogni giorno. Credo che sia stato l’apprezzamento più importante che ho mai ricevuto. Questo valore delle parole ha segnato la mia vita e il mio lavoro.

Ora penso che Padovani mi ha insegnato a trattare le parole come elementi solidi e pesanti, mi ha insegnato che le parole fanno differenza e che bisogna usarle per esprimere fatti e non solo pensieri. Negli ultimi anni avevo ritrovato Padovani su FB. Gli mandavo qualche messaggio ogni tanto, lui rispondeva grato per il ricordo, gli facevo gli auguri di Natale. Mi aveva detto che era ammalato. All’ultimo messaggio non ha risposto.

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Maura Franchi

È laureata in Sociologia e in Scienze dell’Educazione. Vive tra Ferrara e Parma, dove insegna Sociologia dei Consumi, Social Media Marketing e Web Storytelling, Marketing del Prodotto Tipico. Tra i temi di ricerca: le dinamiche della scelta, i mutamenti socio-culturali correlati alle reti sociali, i comportamenti di consumo, le forme di comunicazione del brand.


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