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Associo la scrittura di Camilla Ghedini a due parole: coraggio e autenticità. Tratti che parlano di lei.
Leggo e rileggo da giorni ‘Interruzioni’, un volume nero di poco più di novanta pagine, esile solo all’apparenza, eppure di quei libri che ti attraversano, che ti entrano nelle vene.
Giornalista professionista e autrice ferrarese, Camilla Ghedini sa scrivere a chiare lettere cose che anch’io ho pensato, ma che spesso non ho avuto il coraggio di dire.
E poi succede che la vita la si comprende a un passo dalla morte, nostra o altrui, un passo prima o un passo dopo, ma troppo tardi e senza possibilità di riscriverla. Ed è in quel momento che le parole essenziali diventano poche, poche e potenti, perché cariche del dolore, dei dubbi e dei rimpianti, dei rimorsi. Dei silenzi non ascoltati, degli abbracci non dati, della rabbia gridata, dei giudizi eccessivi, delle azioni rimandate e di quelle compiute e irreversibili”. Così Ghedini introduce il libro, dedicato “A mio papà, che mi ha amato di un amore materno”.
Un lavoro scritto “con la morte dentro e tra le dita”.

‘Interruzioni’ (Giraldi Editore, 2016) presenta quattro storie di mancata o negata maternità.
Come il titolo suggerisce, si tratta in tutti i casi di interruzioni: la morte, l’abbandono, la ferita, l’aspirazione troncata. Ogni racconto esaspera, volutamente, ciò che l’opinione diffusa vorrebbe contro natura. In ogni racconto, di pura fantasia, la protagonista svela, con la formula del monologo, del dialogo, del flusso di coscienza, la sua personale sospensione di un percorso: c’è la rinuncia volontaria alla procreazione, l’infanticidio, la malattia e la scelta della morte spiegata a una madre “mai stata tale”. C’è il desiderio-fissazione di una figlia forse neppure mai concepita che si interseca a un’altra discontinuità, quella della coppia.Il libro ha compiuto un anno, ma continua a far parlare di sé: Panorama.it lo ha consigliato sia per le letture del Fertility Day sia per l’8 marzo.

‘Interruzioni’ racconta la paura, l’inadeguatezza, il senso di colpa, “l’amore/ disamore per un figlio, per una madre, per se stessi, per un sogno”. Argomenti dolorosi, che Camilla tratta con “una delicatezza che è riuscita a farsi varco anche tra le rivelazioni più dure e feroci”, osserva Marilù Oliva nella prefazione, aggiungendo: “Resta poi, alla fine di ogni lettura, un raggio di luce, un invito alla speranza, un velo pacifico sul mondo […] – e non è un caso che le quattro chiose avvengano con parole quali amore, bene, felicità, vita”.
Parlando di vuoto, di mancanza e di morte, l’autrice sa riaffermare l’amore profondo per una vita che vale sempre e comunque la pena di essere vissuta: “la vita è un libro […] Va letto pagina dopo pagina, senza stancarsi, senza smettere prima di arrivare alla fine. Devi portarlo a termine anche se non ti piace, devi portarlo a termine per curiosità”. L’ultima storia è narrata, lettera dopo lettera, a una piccola, cara Giulia “con gli occhiali color osso, la salopette azzurra, i codini” e racchiude disincanto e disarmanti conquiste interiori: “Ricorda sempre che il modo peggiore per perdere le persone a cui vuoi bene è tradirle e ferirle negli entusiasmi. È l’unico sentimento a cui non c’è rimedio, perché ciascuno di noi è un mondo sconosciuto e quando ci si sente feriti non si ha più voglia che qualcuno compia viaggi nella nostra anima […] Non farti mai prendere dal rancore. E neppure dall’orgoglio. Sono sentimenti inutili”.
Ho ascoltato le voci di ‘Interruzioni’. Mi sono commossa, ho riflettuto. Mi ci sono riconosciuta. E questo non credo sia tanto perché ho vissuto o immaginato una o più delle situazioni descritte. Piuttosto perché anch’io, proprio come scrive l’autrice nelle sue Conclusioni, “ho sperimentato e conosciuto l’assenza”.

Quanto hai messo di te in questo libro? Scrivere ti è costato fatica o è stato in qualche modo liberatorio?
Ci sono io nella scelta degli argomenti, nella selezione delle parole, nel flusso di coscienza che ho sperimentato come narrazione. Poi, non sono io la protagonista dei racconti. Ma certamente c’è la mia visione della vita, profondamente laica. Ci sono io nella convinzione che si possa scegliere di non essere genitori per timore di perpetrare l’infelicità. Che si possa scegliere di non curarsi, di fronte a una malattia irreversibile, perché per quanta fede io abbia, ritengo di poter disporre del mio corpo. Ci sono io nel dubbio, forte, che forse essere madre mi avrebbe reso sorprendentemente fiduciosa. E in questo legame profondo che sento tra la vita e la morte. Ai figli si dice ‘Ti ho dato la vita’. Mai ‘Ti ho dato anche la morte’, eppure è così. Quindi, non mi è costato fatica, ma non è stato neppure liberatorio. Ho sondato questi sentimenti dentro me stessa attraverso le storie che ho costruito. E qui, tanta parte ha avuto l’essere giornalista. I temi anticipati in ‘Interruzioni’ sono poi tutti stati trattati tra family day, fertility day, testamento biologico. Diciamo, in generale, che forse sono riuscita a dare un nome a certi tumulti che prima erano solo vibrazioni.

Quando hai iniziato a scrivere? Quando hai capito che volevi fare della scrittura la tua professione?
Io ho sempre letto molto, fin da bambina. Ho frequentato il Liceo Classico, mi sono laureata in Lettere Moderne con indirizzo storico, ho lavorato per un po’ per progetti di ricerca dell’Ateneo poi, nell’imminenza di un concorso di dottorato, ho capito che non faceva per me, perché avrei rischiato di implodere. Avevo sempre sognato di fare la giornalista, così, a 27 anni compiuti, ho buttato alle ortiche il percorso universitario e ho ricominciato tutto daccapo correndo come una matta. A 29 anni ero giornalista pubblicista, a 32 professionista. Ho scelto la libera professione perché di carattere sono un’autonoma. Ho continuamente bisogno di rischiare, di misurarmi con cose nuove. E le parole sono il mio strumento, quello che mi permette di non ripiegare su me stessa. Se dovessi definirmi, direi che sono una scrivente. Perché della scrittura, nelle sue infinite potenzialità, ho fatto una professione.

Perché scrivere? Cosa significa per te essere giornalista?
Essere giornalista, per me, è tutto. È il mio modo di sentire la vita, di essere parte del mondo, di essere in relazione con gli altri. Significa ascoltare, percepire, intuire, prevedere, trasmettere. Creare rapporti di fiducia, di lealtà. Significa avere costantemente dei dubbi e delle curiosità. E soddisfarle, nell’interesse collettivo. Lo scoglio più grande è stato rimanere idealista, senza essere utopica. D’altra parte, la scelta della libera professione implica anche la rinuncia al ‘ruolo’, alla ‘carriera’, alla ‘tutela’. Io ho scelto un mestiere e dei contenuti, evitando la gerarchia.

E perché leggere, invece?Mi ha molto colpito, nel maggio 2012, l’appello “Libri per tendopoli”, grazie al quale, ottenendo risposte da tutte le case editrici d’Italia, hai raccolto e distribuito oltre 21 mila libri…
Perché quando in tv vedevo le immagini delle tendopoli mi chiedevo come avrebbero fatto le persone a fare trascorrere il tempo in quella ‘loro’ vita così improvvisamente diversa. I libri consentono di entrare nelle esistenze degli altri, ci sottraggono alla nostra, ci regalano dolori, condivisioni, fastidi. Ma ci portano via. E ho pensato che i terremotati ne avessero bisogno. È stato un lavoro titanico, dal risultato inaspettato, cui mi sono dedicata per mesi, con l’aiuto di qualche amico. Ho seguito l’istinto, come sempre, e i fatti mi hanno dato ragione. Quando arrivavo coi libri erano tutti felicissimi. La cultura è necessaria non solo per ostentarla, sport che oggi va per la maggiore, ma per introitarla, per darci energie e rimetterle in circolo. I libri, in quel momento, erano il mattone da cui ripartire.

C’è qualche autore a cui ti ispiri?
No, leggo di tutto, indistintamente e in maniera bulimica. Spesso non ricordo neppure gli autori e i titoli, tant’è che dal 2016 ho cominciato a segnare tutto su una agenda. Però mi rimane il senso, un particolare, una suggestione, è quello secondo me che conta. Ho amato molto Simone De Beauvoir. Da ragazzina ho letto tutto. Da adulta, due anni fa, ho ripreso Una morte dolcissima. Pochi giorni dopo ho saputo che avrei perso mio padre, senza neppure potere sperare. Ecco, i libri sanno anticipare anche quel che ci avverrà. Sono loro che scelgono noi.

Sei tra gli autori di ‘Il mestiere più antico del mondo?’ (Elliot, 2016), antologia sulla prostituzione, a fianco di autori come Dacia Maraini, Maurizio De Giovanni, Marilù Oliva, Romano De Marco, Alessandro Berselli, Sara Bilotti, Ilaria Palomba. I proventi delle vendite sono stati devoluti al Telefono Rosa. Che cosa rappresenta per te questo volume?
Rappresenta la possibilità – e il dovere, avendone appunto la possibilità – di trattare temi ostici senza retorica, senza offrire soluzioni. Scrivere significa anche lasciare traccia dei propri pregiudizi, delle proprie convinzioni, dei propri pudori, delle proprie convenzioni. Il mio pensiero, nei mie due racconti e nella prefazione, emerge con forza. Ritengo coraggiosa la scelta di Marilù Oliva, che ha curato il volume, di concentrarlo sulla prostituzione. È il pezzo della politica, credo, su cui c’è la maggiore ipocrisia, perché ci chiama in causa tutti.

Scelta originale anche il libro ‘Amo te, starò con lei per sempre’ (Giraldi, 2014), scritto con Brunella Benea, nel quale viene affrontato il tema del tradimento e della famiglia. Un libro diretto, mai scontato, in cui il tema viene affrontato con ironia. Come è stato accolto questo libro?
Direi molto bene, è stato compreso. Forse ha addirittura intercettato un bisogno, quello di sdoganare la figura dell’altra, che più che una calcolatrice sfascia famiglia è spesso un’ingenua. Io e Brunella, come si evince dalla lettura, siamo per la monogamia, per l’esclusiva. Sappiamo però che il tradimento può esistere, lo si può praticare e/o subire. Non è una tragedia. Basta che non diventi un’abitudine o non venga accettato per poco amore di sé. Tutti meritiamo qualcuno solo per noi. Oppure nessuno. Ma certo non la metà degli altri. Continuiamo a ricevere lettere di donne che si sono immedesimate e sono riuscite così a prendersi con maggiore ironia. Ovviamente parlo di lettere di amanti, dalle mogli non abbiamo avuto riscontri…

Quali sono i tuoi progetti in cantiere?
Sto lavorando a un progetto tanto bello quanto difficile, molto impegnativo, che mi sta richiedendo un investimento, anche emotivo, importante. Per scaramanzia non aggiungo altro.

Serve più coraggio a vivere o a scrivere?
Io non so vivere senza leggere. Quindi rispondo che serve più coraggio a leggere, perché il rapporto con la pagina è intimo. Quando scrivi, hai già filtrato con la razionalità.

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Eleonora Rossi



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