Secondo gli ultimi dati Istat (dati provvisori del 29 aprile 2016, su marzo 2016), dopo il calo di febbraio 2016 (-0,4%, pari a -87 mila occupati), a marzo la stima degli occupati risale dello 0,4%, tornando ai livelli di gennaio.
Rimane tuttavia preoccupante il fatto che la diminuzione di occupati di febbraio abbia coinvolto uomini e donne, sia stata determinata dai dipendenti e, soprattutto si concentrata tra i 25-49enni. Il tasso di disoccupazione nel paese è all’11,4% con 2.895.000 di disoccupati.
Alla fine di marzo 2016 i contratti collettivi nazionali di lavoro in vigore per la parte economica riguardano il 40,8% degli occupati dipendenti e corrispondono al 38,7% del monte retributivo osservato. Nel mese di marzo l’indice delle retribuzioni contrattuali orarie rimane invariato rispetto al mese precedente e aumenta dello 0,8% nei confronti di marzo 2015.
L’Inps, attraverso il suo Osservatorio sul lavoro accessorio, ci informa però che, solo nel corso del 2015 sono stati venduti 115,1 milioni di voucher di importo nominale pari a 10 euro: il 66% in più rispetto al 2014; mentre il numero di lavoratori interessati nell’anno 2015 è stato pari a 1.380.030 unità (+36% rispetto al 2014).
Fin qui i numeri, ma il tema lavoro può essere ridotto costantemente solo ai numeri?
La Costituzione italiana ne fa una questione di cittadinanza e di emancipazione: la nostra repubblica democratica è fondata sul lavoro, che viene sancito come un diritto e un dovere, non solo individuale, ma sociale: attraverso il lavoro ogni persona trova – o dovrebbe trovare – i mezzi per liberarsi dal bisogno e raggiungere dignità e indipendenza; attraverso il lavoro si contribuisce – o si dovrebbe contribuire – non solo al benessere materiale della propria comunità, ma anche alla costruzione dei suoi valori, nel presente e nel futuro.
Oggi è il 1 maggio: la Festa del lavoro e dei lavoratori. Approfitto di questa ricorrenza per pubblicare alcune interviste che vorrebbero affrontare il tema del lavoro, una volta tanto non dal punto di vista esclusivamente economico, ma dal punto di vista politico e sociale.
Si comincia con Gaetano Sateriale: sindaco di Ferrara dal 1999 al 2009, ma con una lunga storia nel Pci e nella Cgil. Dal 2010 si occupa di politica industriale per la Cgil nazionale e dal 2011 è Coordinatore della Segreteria Generale della Cgil.
In un intervento sull’ultimo numero di Azione Nonviolenta, dedicato al tema del lavoro, Lei ha scritto che “La situazione occupazionale del nostro paese è frutto di scelte sbagliate…accumulate ormai in un ventennio di non governo dell’economia”. Quali sono in sintesi queste scelte sbagliate?
L’unione europea fino ai primi anni 2000 poneva tra i suoi obiettivi espliciti per la crescita e la coesione sociale quello della massima occupazione. Le politiche economiche erano definite nel modo più consono al raggiungimento di quell’obiettivo. Ci si occupava molto di economia reale e poco di quella finanziaria, considerata una strumento per la crescita. I vincoli di bilancio non erano una variabile indipendente, ma regole per la convergenza.
In più, i vincoli europei alle politiche dei singoli stati non riguardavano le scelte interne dei servizi di welfare e del lavoro.
Oggi l’Europa ha invertito questo modello ponendo ai singoli stati vincoli di bilancio come variabile indipendente da raggiungere anche a costo di sacrificare i servizi sociali.
Malgrado la crisi abbia moltiplicato la disoccupazione (specialmente quella giovanile e femminile), non pone più al centro delle proprie strategie l’obiettivo del pieno impiego, ma il fiscal compact. I tagli successivi di spesa pubblica hanno prodotto riduzione dei servizi, anche primari come la salute.
L’Italia ha seguito queste scelte sciagurate e si trova ormai agli ultimi posti europei per crescita e occupazione. Le malattie dell’economia italiana sono tuttavia più vecchie, non è solo responsabilità europea. Il sistema economico italiano ha smesso di fare investimenti per aumentare la propria produttività e competitività dagli anni Novanta. Si è così accumulato un ritardo che si è andato moltiplicando con la crisi. Le imprese italiane, assecondate dai governi, non potendo più svalutare la moneta, hanno ritenuto che il fattore competitivo strategico fosse la svalutazione del lavoro. Questa scelta ha impoverito il lavoro, ma anche le imprese, che hanno rinunciato ad avere le competenze lavorative di cui avrebbero necessità.
L’ultimo atto di questo processo di svalorizzazione del lavoro è stato il Jobs Act, che sancisce il “completo rovesciamento del rapporto causa effetto della crisi”…
Il Jobs Act è stato presentato agli italiani come un percorso per introdurre nel lavoro “tutele crescenti”. La propaganda non corrisponde alla realtà: si tratta, si potrebbe dire, di “pubblicità ingannevole”. La stabilità del lavoro non è cresciuta, la disoccupazione non è calata. Di fronte a rilevanti incentivi economici le imprese si sono limitate a trasformare (stabilizzandoli pro tempore) lavoratori a tempo determinato: è un fatto positivo, ma che non cambia la deriva generale alla “precarietà stabile” che ormai vivono i giovani italiani.
Al contrario, le imprese hanno colto il messaggio vero che il Jobs Act conteneva: è permesso licenziare senza giusta causa e giustificato motivo senza che il giudice possa disporre il reintegro del lavoratore ingiustamente licenziato. Tant’è che sono iniziati a moltiplicarsi (anche in Emilia e Romagna, anche a Ferrara) i licenziamenti dei delegati sindacali.
La triste verità è che il governo in carica (e il partito di maggioranza) non hanno o hanno perso la cultura del lavoro che è stata per oltre un secolo componente essenziale delle formazioni politiche di sinistra. Tanto da poter dire che il governo attuale e il partito di maggioranza hanno rinunciato alla loro cultura fondativa.
L’Osservatorio sul lavoro accessorio dell’Inps ci ha informato che, solo nel corso del 2015 sono stati venduti 115,1 milioni di voucher di importo nominale pari a 10 euro, con un incremento del 66% rispetto al 2014; mentre il numero di lavoratori interessati nell’anno 2015 è stato pari a 1.380.030 unità (+36% rispetto al 2014). Si conferma così il trend della diffusione crescente del lavoro accessorio. L’Italia, quindi, come repubblica democratica fondata… sul lavoro accessorio?
È triste ma è proprio così. Anche in questo caso la realtà e la propaganda viaggiano su percorsi opposti. Quello che doveva essere uno strumento di regolarizzazione per il lavoro nero ha trasformato molte attività in “lavoro usa e getta”. È un fenomeno cui porre urgentemente rimedio.
Perché il sindacato non riesce a raggiungere risultati significativi contro questo progressivo processo di svalorizzazione – in senso materiale e sociale – del lavoro?
Perché è una tendenza europea, perché il sindacato nella crisi è più debole, perché il sindacato fatica a intercettare i lavoratori che non hanno un luogo stabile in cui svolgere la loro attività. E anche perché il sindacato fatica, per la sua formazione anche culturale oltre che organizzativa, prevalentemente industrialista, a cogliere le innovazioni anche positive che stanno attraversando il mondo del lavoro dell’industria e dei servizi, grazie anche alle tecnologie informatiche e della comunicazione.
Come dare voce allora ai bisogni sociali del lavoro oggi?
I bisogni sociali e del lavoro si sono nella crisi molto mescolati: la disoccupazione riduce la coesione sociale e allarga di diseguaglianze, il lavoro povero non garantisce una vita dignitosa a chi lo svolge e alla sua famiglia.
Il sindacato (la Cgil) intende agire su due programmi paralleli e complementari. Il primo risponde alla necessità di creare più lavoro e ridurre la disoccupazione specialmente giovanile. Il secondo è un percorso di riconoscimento di nuovi e pieni diritti al lavoro e ai lavoratori, che tenga conto delle differenze esistenti ma che stenda una rete di tutele generali adeguata. È la “Carta dei Diritti” su cui si stanno raccogliendo le firme dei cittadini.
Nel 2013 la Cgil ha presentato un nuovo “Piano del lavoro”. Quali i punti e gli obiettivi principali? Dove reperire le risorse?
L’obiettivo principale del Piano del Lavoro della Cgil è quello di creare nuovi posti di lavoro soprattutto per i giovani, per non obbligare un’intera generazione a emigrare per cercare un lavoro dignitoso. In mancanza di una politica economica nazionale (o europea) di rilancio degli investimenti, il Piano del Lavoro persegue una realizzazione dal basso, dalle regioni e dai territori. Si parte dalle arretratezze (rischio idrogeologico, sismico, trasporti, logistica, inquinamento, ecc) e dai nuovi bisogni sociali (i servizi di assistenza e salute per una popolazione che invecchia) e si costruiscono progetti concreti per rispondere a queste esigenze diffondendo innovazione e lavoro. Lo strumento individuato per avviare questo percorso e diffonderlo nel paese è la contrattazione sociale territoriale, esperienza sindacale unitaria già avviata e diffusa di confronto con i Comuni e le Regioni sui temi sociali più rilevanti. Parliamo di circa un migliaio di accordi realizzati ogni anno, anche nel periodo attuale di crisi e taglio delle risorse pubbliche locali.
La crisi ci ha abituati a pensare che non ci siano più risorse, ma non è vero. Siamo in una fase in cui, in mancanza di prospettive di sviluppo certe, i capitali non vengono investiti, non in una fase in cui non ci sono più. Nel sistema pubblico le risorse per gli investimenti sono diminuite, ma non sono sparite. Io ripeto sempre, nei corsi di formazione sulla contrattazione territoriale con i Comuni, che quando un sindaco dice che non ci sono soldi, dice una cosa metà vera e metà falsa. Metà vera, perché certamente i Comuni hanno meno disponibilità di spesa che non negli anni scorsi. Metà falsa, perché le risorse che ha disposizione ha già deciso come impiegarle, prima del confronto con le forze sociali. Bisogna scegliere gli obiettivi prioritari e convogliare su quelli le risorse disponibili.
Cosa sono e quale funzione dovrebbero avere i Lis-Laboratori di innovazione sociale?
Per costruire piattaforme che rispondano ai nuovi bisogni sociali, il sindacato deve fare due cose: uscire dalle sue sedi e intercettare i bisogni non solo del lavoro, ma della sua comunità. Queste due operazioni di trasformazione (non semplici da realizzare) vanno svolte a diretto contatto con altre organizzazioni sociali e con le singole persone e le loro istanze. Abbiamo pensato che si possano creare punti di dialogo nei quartieri. Li abbiamo chiamati (forse un po’ pomposamente “Laboratori di innovazione sociale”)
Il Piano del Lavoro al suo interno ha anche un’agenda giovani…
Sì, perché abbiamo pensato che i giovani, con le loro competenze e le loro idealità, vadano coinvolti fin dall’inizio nella realizzazione del Piano del lavoro e non come misura finale della sua efficacia. Anche perché, sono già avviate in molte città iniziative autonome che perseguono lo stesso obiettivo di fornire risposte ai nuovi bisogni creando nuovo lavoro. Queste iniziative autonome vedono spesso i giovani come protagonisti. Spesso anche i coordinamenti giovani della Cgil che hanno dato vita a molte esperienze di coworking in Italia.
Sono ormai passati tre anni dalla sua presentazione e in alcune realtà il Piano è diventato riferimento di una nuova stagione di contrattazione territoriale. Un primo bilancio?
Molto positivo, seppur parziale. Stiamo in tutte le realtà preparando corsi di formazione per la nuova contrattazione territoriale cui partecipano le diverse strutture sindacali e i delegati. Pensiamo che il 2016 sia l’anno in cui si costruiscono le piattaforme delle città capoluogo e delle Regioni. In alcune Regioni (anche del Sud) sono stati fatti accordi che pongono al centro l’obiettivo della crescita e del lavoro e finalizzano a questi obiettivi risorse consistenti. Basti pensare al recente Patto per il Lavoro stipulato tra la Regione Emilia Romagna e circa 40 soggetti istituzionali e sociali (tra questi Cgil, Cisl e Uil).
Alla proposta economica del Piano del lavoro in questo 2016 si è affiancata la nuova battaglia sui diritti con la raccolta firme per la “Carta dei diritti universali del lavoro”…
Sono due percorsi paralleli e complementari. Creare lavoro prima di tutto, nelle sue diverse forme, cercando di favorire i rapporti stabili, le modalità e le retribuzioni dignitose, le prospettive di crescita, le tutele contro le irregolarità, i diritti. Venti anni di svalorizzazione del lavoro ci hanno portato alla situazione di crisi che conosciamo. Senza lavoro e senza una cultura adeguata di cosa significhi per le persone e per la società svolgere un’attività lavorativa dignitosa, dalla crisi non si uscirà. Il Piano del Lavoro e la Carta dei Diritti contro i “gufi” che predicano la stagnazione secolare e la jobless society.
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Federica Pezzoli
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