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Vite di carta. Il gioco dei bastoncini shanghai

Ho molte sollecitazioni in testa. Sono venute così, un giorno dopo l’altro leggendo libri, ascoltando su Rai3 una bella puntata di Maestri sulla presenza femminile tra gli autori della storia letteraria italiana, conversando a tavola con le amiche sulle nostre letture.

Ho letto per primo un libro che è da dimenticare e che ho già dimenticato: Molto amore per nulla. L’ho scelto distrattamente sul tavolo delle novità alla biblioteca del mio paese; ho pensato ‘non conosco questa Anna Premoli’. Ho visto che ha già venduto oltre 800.000 copie. L’ho letto, come dicevo. Ho anche saltato, con l’avallo di Pennac, molte delle pagine centrali, nella sicurezza di non perdere il senso della storia che è tutta uno stereotipo.

Lui e lei si conoscono, alla fine si amano e nel mezzo sono raccontate le tappe del loro avvicinamento: un repertorio di occasioni di lavoro e di incontri casuali, che portano i due verso il lieto fine. La scrittrice ha inserito alcune variabili narrative accattivanti, del tipo che lei è avvocato ed è single, ha una promettente carriera davanti a sé, ma non si cura come dovrebbe. Lui è bellissimo, ma anche sensibile e intelligente, al punto da accorgersi di lei anche se indossa abiti poco vistosi.

Sono passata ai racconti: ho aperto la raccolta curata da Corrado Augias dal titolo Racconti parigini e ho scelto di cominciare da La Torre Eiffel del nostro Dino Buzzati, unico italiano tra i venti mostri sacri scelti dal curatore, del tipo Walter Benjamin, Marcel Proust, Gertrude Stein e così via. Leggo molti più racconti ultimamente, perché è una sollecitazione che mi è venuta dall’esterno e perché voglio riaccostarmi in modo libero a questo genere, fuori dai percorsi scolastici.

Buzzati ne ha scritti di bellissimi e li ha ambientati in ogni parte del mondo, in situazioni concrete e quotidiane piene dei dettagli della vita ordinaria. Spruzzandoli però abbondantemente di magia, spargendoli di una polverina che li trasforma in fiabe misteriose.

Gli operai che costruiscono la Torre, a centinaia cominciano a lavorarci a turni serrati; il narratore è uno di loro, è un bravo operaio meccanico che è stato ingaggiato da Gustavo Eiffel in persona: descrive perciò il lavoro iniziale con una precisione tecnica che rimanda al filone della letteratura industriale in voga negli anni Sessanta; fa pensare alle grandi opere narrate da Primo Levi nel suo La chiave a stella.

Gli operai condividono fin dall’inizio un segreto e, quando la Torre raggiunge i cento metri di altezza, un anello di nebbia, che piacerebbe a Magritte, avvolge il suo culmine, impedendo a chi ci lavora di vedere in basso e di essere visto. Il cappello di fumo sale mentre anche la costruzione va su fino ai 200, poi ai 280 e infine ai 300 metri e anche oltre: fino all’infinito la porteranno gli operai, il loro segreto si trasforma via via in un sogno.

Il racconto si chiude con la inaugurazione del 31 marzo 1889 [Qui]: è finita la Torre che il mondo intero attende, dalla straordinaria altezza di 312,28 metri. Durante la cerimonia, però, i vecchi operai piangono tutta la loro delusione: da quando le forze dell’ordine hanno minacciato di aprire il fuoco contro di loro, sono stati costretti a scendere dal “sublime esilio” e ad amputare la guglia, rinunciando al “poema” che volevano elevare fino al cielo.

Dopo il libro totalmente orizzontale di Anna Premoli, fatto per solleticare una facile emotività, mi ci voleva la spinta verso l’alto narrata da Buzzati, l’ardore di osare, il gusto delle situazioni paradossali che tocca in profondità le simbologie del nostro immaginario.

Nel ripensare a La mattina dopo di Mario Calabresi, che ho riletto appena sveglia per alcune delle ultime mattine, mi viene in mente una linea obliqua, o meglio una linea spezzata che punta comunque verso il basso. E’ partita da un punto alto di dolore e di smarrimento e lo perde via via, come una zavorra che non può fare testo nella vita dell’autore, non le viene lasciato il modo di corrodere troppo.

La mattina dopo la brusca interruzione del suo lavoro di direttore di La Repubblica Calabresi si reinventa. E così si comporta nei mesi successivi, occupandosi della storia di famiglia e della ricerca di un tempo adatto ai rapporti con gli altri, con coloro che ama o che gli sono amici. Intanto metabolizza il vuoto che è subentrato nelle sue giornate e si abitua al nuovo silenzio, lontano dalla redazione e dal telefono che squillava perennemente. Il racconto della sua nuova vita segue i lembi della ferita che gli è stata inferta e li cuce poco alla volta, con le parole che nascono dai ricordi e dalle riflessioni di cui si è capaci nella maturità.

Le linee ora sono tre e, come shanghai [Qui] lanciati in alto e poi lasciati cadere, si trovano sovrapposti, ognuno col suo colore e con una direzione da seguire.

Le letture di questi giorni non sono però finite.

L’ultima non viene da me, ma dal gruppo di lettura di cui faccio parte al mio paese: Nessuno si salva da solo di Margaret Mazzantini. Ho pensato “meno male una donna, un’altra autrice che riporta in pari il conto con Buzzati e Calabresi”. Questo libro lo penso però come una narrazione poco riuscita, come un organismo in cui le parti non collaborano tra loro. I contenuti della storia hanno una loro stabilità (la separazione dolorosa tra Delia e Gaetano viene ricostruita dalla voce narrante mentre i due sono a cena al ristorante, in un continuo andirivieni tra presente e passato), mentre la lingua sembra non aderire in molti punti a ciò che viene detto dei due personaggi, sembra un vestito che non ha le stesse misure della persona che lo indossa.

Troppe esplosioni improvvise di un linguaggio turpe, che tradisce, anziché esprimere la personalità di ognuno. E’ la sua gratuità che fa suonare falsa la pagina; viene da pensare che due persone come Delia e Gaetano possono esistere, ma usano quel linguaggio? Che in una fase così delicata della loro storia il turpiloquio sia così spesso la chiave espressiva di cui hanno bisogno? Le linee che escono dal libro di Mazzantini restano due, come due lunghi shanghai, che hanno tratti in parallelo e tratti in cui si staccano l’uno dall’altro, assumendo il profilo di linee spezzate.

Mi succede spesso che la scia lasciata dai libri prenda la forma di linee colorate nello spazio, che si dispongono a formare geometrie composite. Quando guardo col giusto distacco gli oggetti della conoscenza mi riesce di sintetizzarli in un colore, in una linea o in una forma stilizzata.
Per esempio: I promessi sposi sono un quadrato di colore rosso, impenetrabile, La coscienza di Zeno una margherita dai petali gialli, azzurre e senza contorni precisi le nuvole di colore lasciate dalle poesie dei Canti orfici di Dino Campana.

Mi viene in mente che potrei ricostruire anche il repertorio degli odori che lasciano i libri. Magari un’altra volta.

Nel testo faccio riferimento ai seguenti libri:

  • Anna Premoli, Molto amore per nulla, Newton Compton Editori, 2020
  • Corrado Augias (a cura di), Racconti parigini, Einaudi, 2018
  • Mario Calabresi, La mattina dopo, Mondadori, 2019
  • Primo Levi, La chiave a stella, Einaudi, Premio Strega 1978
  • Margaret Mazzantini, Nessuno si salva da solo, Mondadori, 2011

Per leggere gli altri articoli e indizi letterari della rubrica di Roberta Barbieri clicca [Qui]

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Roberta Barbieri

Dopo la laurea in Lettere e la specializzazione in Filologia Moderna all’Università di Bologna ha insegnato nel suo liceo, l’Ariosto di Ferrara, per oltre trent’anni. Con passione e per la passione verso la letteratura e la lettura. Le ha concepite come strumento per condividere l’Immaginario con gli studenti e con i colleghi, come modo di fare scuola. E ora? Ora prova anche a scrivere


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