Trovare nei nostri prati, campi o addirittura balconi, la camomilla selvatica, non è nulla di strano.
Nel deserto roccioso algerino, dove sorge il campo profughi dei saharawi fuggiti dal Sahara Occidentale dopo l’occupazione del Marocco, il ritrovamento della ‘matricaria pubescens’ è invece eccezionale e importante perché sta alla base della medicina tradizionale.
Grazie ad un progetto di solidarietà in collaborazione con il Centro di ateneo per la cooperazione allo sviluppo internazionale dell’Università di Ferrara diretto dal professor Alessandro Medici, è stato possibile assegnare ad un farmacista saharawi, Mohamed Lamin Abdi Mahbes, un dottorato di ricerca per studiare le proprietà delle erbe che crescono nel deserto, ed il loro utilizzo in medicina e cosmesi. Lo scopo ultimo è quello di rendere sempre più autonoma la popolazione saharawi dagli aiuti umanitari, e favorire la produzione di medicine, possibilmente a base naturale, partendo da ciò che si trova attorno alle tendopoli dei rifugiati o nei limitrofi mercati locali.

Il progetto ha visto in una prima fase la visita ai campi di una ricercatrice dell’Università di Ferrara, Alessandra Guerrini, che è rimasta una settimana per capire come sono organizzati i laboratori nei campi e qual è il contesto di vita. In una seconda fase, che si è appena conclusa, il dottorando saharawi è stato nei laboratori della facoltà di Chimica e tecnologia farmaceutica di Ferrara, per analizzare, assieme ai ricercatori e ad una studentessa che scriverà su questo la tesi, le proprietà della camomilla che viene dal deserto, e valutarne possibili impieghi.
“Ogni tre mesi vorremmo cambiare pianta tra tutte quelle che Lamin ci ha portato – ha spiegato la dottoressa Guerrini – e dedicare alla sua analisi ogni volta una tesi sperimentale”.
“Al momento stiamo facendo ricerche di base sulla caratterizzazione chimica – ha proseguito la ricercatrice – per capire quali sono i principi attivi delle piante: sappiamo che alcune dovrebbero avere proprietà antiossidanti e antibatteriche, ma prima di destinarle alla produzione di prodotti farmaceutici o di bellezza dobbiamo eseguire i necessari test biologici”.
“Le malattie più diffuse ai campi – ha raccontato il dottor Mahbes, che si è laureato in farmacia nell’ex Urss– sono quelle respiratorie, gastrointestinali, la celiachia e il diabete. Nelle tendopoli le cure sono gratuite, e i medici ricevono solo un incentivo simbolico. Noi lavoriamo per il bene della comunità, non avendo al momento un paese, questo è il nostro modo di lottare”.
“Nei campi profughi esistono due grandi ospedali – ha proseguito Lamin – poi c’è un centro sanitario in ogni provincia, e un dispensario in ogni comune. Se potessimo utilizzare le erbe come integratori per i medicinali, potremmo produrli da soli, riducendo la dipendenza dagli aiuti alle sole materie prime e non ai prodotti finiti”. Un grande passo avanti anche per dare un futuro ai tanti giovani nati nei campi profughi, “un deserto, nel deserto”, che non hanno mai vissuto nella terra d’origine, che al contrario è rigogliosa e affacciata sul mare.
