IL FATTO
Diritto di copiare? Gli studenti dicono “no”: una scuola più difficile apre più porte
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Qualche giorno fa un gruppo di studenti dell’Università di Bologna si è riunito in assemblea per discutere la dichiarazione pubblica di un professore tesa a stigmatizzare la pratica del plagio tra i docenti. La dichiarazione suonava più o meno così: “poiché troppi docenti copiano e non vengono sanzionati, da oggi non prenderò alcun provvedimento se sorprenderò i miei studenti a copiare durante un esame”.Un invito generale a infrangere le regole motivato con l’incapacità dell’Ateneo di farle rispettare ai docenti. Gli studenti, invece, hanno votato a larghissima maggioranza contro il “diritto di copiare”. Mi sembra una bella lezione a quanti sono tentati di rispondere ad una cattiva pratica con il diritto ad un’ulteriore generalizzazione della stessa. Una buona notizia: ci sono giovani a favore del rispetto delle regole e che non assumono i vizi altrui, come è frequente tra gli adulti, a giustificazione delle proprie mancanze.
Questa notizia segnala qualcosa di ancor più importante in un tempo in cui l’accesso al lavoro, insidiato da cambiamenti epocali, è sempre più problematico. Comincia a diffondersi la consapevolezza che la qualità dell’istruzione sia ancora più importante in un mercato del lavoro in forte mutamento e che, insieme all’istruzione, contano un insieme di requisiti che un giovane matura con le proprie scelte di vita. Come è noto, sulla probabilità di ottenere una buona occupazione, oltre al titolo di studio, incide il fatto di conoscere perfettamente le lingue e l’avere svolto un tirocinio o un periodo di stage preferibilmente all’estero. Conta anche la disponibilità a lavorare fuori dall’Italia e in generale la possibilità di dimostrare di avere impiegato proficuamente il tempo durante l’università.
Tutto ciò è ormai noto da anni e conforta verificare che gli studenti (almeno i migliori) questo chiedono: una buona formazione, non piccoli escamotage per studiare meno, non solo diritti, ma doveri. Chi frequenta gli studenti universitari verifica quotidianamente che almeno una parte di loro chiede di essere messa alla prova ed è consapevole che un esame difficile rappresenta una chance per aspirare ad un lavoro migliore.
Questa vicenda può essere l’occasione per ragionare sulla necessità di superare un approccio (duro a morire) che confonde il diritto a pari opportunità di accesso ai livelli più elevati di istruzione con una scuola facile, fatta di poche verifiche e di voti minimi garantiti. Nella risposta degli studenti in questione emerge la consapevolezza che la possibilità di una laurea facile non rappresenta un vantaggio per loro, ma si traduce in una discriminazione ulteriore verso coloro che partono da una posizione di svantaggio sociale. Una scuola facile contribuisce a incrementare le disuguaglianze sociali. Coloro che hanno possibilità economiche frequentano le migliori università, che spesso sono private e possono accedere a costosi master negli Stati Uniti o in Inghilterra. La cosiddetta generazione del diritto allo studio, che negli anni Settanta si batteva per l’accesso di massa all’istruzione, si confrontava con un tempo in cui di lavoro ce n’era tanto e ciascun laureato ne avrebbe trovato uno, probabilmente a vita, nel pubblico impiego.
Oggi non è più così: l’effetto congiunto dell’innovazione tecnologica e della globalizzazione convergono nel rendere più dicotomico il mercato del lavoro: da un lato si trovano i giovani dotati di competenze e dall’altro quelli destinati ad attività marginali e di basso profilo. Non ci saranno diritti in grado di contrastare questo esito. Per questo una scuola difficile è una scuola più egualitaria, perché consente a coloro che intendono impegnarsi, di sfidare coloro che hanno una strada già spianata dai privilegi familiari.
Maura Franchi insegna Sociologia dei Consumi presso il Dipartimento di Economia di Parma. Studia le tendenze e i mutamenti sociali indotti dalla rete nello spazio pubblico e nella vita quotidiana.

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Maura Franchi
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