IL FATTO
David Carr: il giornalismo resta vivo se c’è onestà e ferocia intellettuale
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Morire in scena, dicono che sia privilegio dei grandi. Anche se la scena è la redazione di un giornale, il loro trono una scrivania da ufficio. David Carr, morto il 12 febbraio in una ordinaria giornata di redazione dopo avere moderato un dibattito per il documentario “Citizenfour”, si occupava di cinema sul suo blog Carpetbegger e di media, economia e cultura per il New York Times, a cui era approdato dopo aver scritto sull’Atlantic, sul New York Magazine e sul Twin Cities Reader. Ospite del festival di giornalismo Internazionale a Ferrara nel 2012, in cui aveva dialogato con il direttore del “Guardian” Alan Rusbridger, Carr era un personaggio anomalo e affascinante; ed è stata la sua vita particolare, prima ancora che la sua penna, a fare capire che non serve un foglio di carta per esserlo, un giornalista. In due sensi ben diversi. Il primo: la rivoluzione mediatica che ha investito il mondo del giornalismo, raccontata nel documentario del 2011 “Page One: Inside the New York Times”. Voce narrante e protagonista, Carr racconta qui il lavoro all’interno della redazione del Times, compreso il difficile passaggio affrontato dal cartaceo nell’era del digitale e i passi del giornale in una terra che vede coesistere scettici, entusiasti e disillusi di un mestiere che sta cambiando inesorabilmente faccia. Carr tentava di cambiarne anche la mentalità: nella sua rubrica “The Media Equation”, che teneva ogni lunedì, analizzava i cambiamenti nel mondo di editoria, televisione e social media, e le interconnessioni tra questi ultimi e il giornalismo, le sue trasformazioni e le implicazioni etiche che ne derivavano.
Il secondo: che bastano onestà personale e ferocia intellettuale, nei confronti di se stessi e degli altri, per fare buona informazione. Che ogni passaggio obbligato e devastante della vita può insegnare qualcosa: a essere migliore o peggiore, ma sicuramente diverso da quello che si è stato. Dalla persona che guarda allo specchio anche solo fino al giorno prima. Carr lo dimostra con il libro “The Night of the Gun”, autobiografia-inchiesta pubblicata nel 2008 in cui racconta il suo passato di tossicodipendente. Di redattore in una paesino del Minnesota alla deriva personale, fatta di botte, di cocaina e di abbandoni, alla fine degli anni Ottanta.
Non nasconde niente di tutto questo, anzi va a cercarlo di nuovo, ancora una volta. Cerca i poliziotti che lo hanno arrestato, le donne che ha picchiato, gli spacciatori da cui si è fornito e gli altri episodi pieni di vergogna di cui è stato protagonista. Chiedendo, da giornalista, di raccontare il punto più basso che ha raggiunto come uomo, con tanto di prove e testimonianze. Da cui non prende le distanze neppure quando ormai è il conclamato uomo di punta: “Sono David Carr e sono un alcolista”, è stato il preambolo con cui si è presentato gli studenti della scuola di giornalismo dell’Università di Berkeley.
Poco importa che lo abbia fatto per esorcizzare il passato o per mettersi in mutande di fronte al mondo: lo ha fatto e basta, e tanto basta. Lavando in pubblico panni sporchi non per inquinare, ma per essere il primo racconto da cui trarre una lezione. Per essere letame, e non diamanti. Senza mai trasformare questa vita vissuta al massimo e al limite nella bella copia di uno spin off, o nella rivincita di un perdente mancato. Mantenendo freddezza, linearità e sincerità brutale che caratterizzavano il suo stile, tanto amato quanto criticato, e guadagnandosi sul campo il diritto di farsi odiare – un privilegio per pochi eletti abbandonati, Indro Montanelli, Oriana Fallaci. Costruendo di fatto un esempio rigoroso di ‘fact checking’, il controllo chirurgico di ogni fatto, ogni dettaglio di un articolo giornalistico necessario alla sua dignità di pubblicazione, che riversa nella vita personale prima ancora che in quella professionale. Profetico nell’anticipare colossali vicende politiche, italiane e non, in cui privato e professionale si annodano malamente in un miscuglio in cui un inutile idiota cerca di nascondere le malefatte successe dietro le quinte senza riuscirci, alla disperata ricerca di qualcuno su cui scaricare il barile di colpa e accusa. Nel ribaltare la prospettiva prima ancora che l’idea diventasse istituzione; nella sua ultima vita piena strabordante di fama e successi e risposte secche come la sua voce roca, vita che forse, a suo stesso dire, non meritava di vivere; nelle storie che raccontava e nella crudezza con cui le raccontava, meritava di essere impiccato con una corda d’oro.
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Giorgia Pizzirani
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