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“Un italiano su cento è celiaco, e considerando che per ogni soggetto certificato, ce ne sono sette che sfuggono alla diagnosi, il rapporto potrebbe essere ancora più alto”. Con queste parole, la nutrizionista Mirella Giuberti, docente dell’I.I.S. Vergani Navarra, ha spiegato le ragioni del convegno “Le farine, il gusto e la salute: glutenfree tra moda e necessità” che si è tenuto presso la Fondazione per l’Agricoltura F.lli Navarra. A fare gli onori di casa la preside del polo scolastico, Roberta Monti e il presidente della Fondazione Navarra, Luigi Fenati.

“Nel frumento ci sono quattro famiglie di proteine, due di esse non si sciolgono in acqua, le gliadine e le gluteine. Quando si accorpano con l’acqua, nasce il glutine, che poi conferisce agli impasti viscosità, elasticità e coesione.
A seconda di quanto glutine contiene una farina, l’impasto sarà più o meno resistente e varierà il tempo per la lievitazione. Tecnicamente la forza di una farina si indica con il fattore di panificabilità W. Con il passaggio dalla panificazione artigianale a quella industriale, il valore W è sensibilmente aumentato. Da 169 W nel 1974 a 209 W nel 2012”.

Partendo da questa spiegazione scientifica, la nutrizionista ha voluto dimostrare come sia verosimile che i cambiamenti varietali volti ad aumentare la presenza di glutine nel frumento possano essere correlati alla proporzionale crescita delle intolleranze.
Sono cambiate le proprietà dei grani e sono cambiate anche le modalità della loro trasformazione.

“Il grano era alla base dell’alimentazione di Greci e Romani eppure non abbiamo notizia di gravi problematiche alimentari. A quell’epoca però la lievitazione era molto più lenta, e così pure la cottura, questo sicuramente rendeva più digeribili i derivati del grano”.

Tornando all’oggi, Giuberti ha suddiviso le varie problematiche.

La celiachia, che è l’intolleranza al gliadina, che preclude l’assunzione di frumento, orzo, segale, avena, farro e kamut per evitare il rischio di gravi lesioni alle mucose dell’intestino tenue.

L’intolleranza al grano, che è una condizione di alterata immunità ad albumine e globuline, che, quando vengono ingerite, provoca sintomi come crampi, diarrea, nausea, mal di pancia associato a gonfiore addominale, aria nello stomaco ma anche nell’intestino, difficoltà e lentezza digestive e vomito.

La sensibilità al glutine, spesso associata alla sindrome del colon irritabile, che è data dall’assunzione di grano, farro, kamut, grano monococco e segale e produce mal di pancia, crampi e costipazione. Le alternative in questo caso sono il grano saraceno, la quinoa, la manioca, l’amaranto, il taro, l’igname e l’albero del pane.

“In molti casi però – ha proseguito la nutrizionista – la dieta senza glutine non risolve il problema, perché potrebbero esserci altre proteine, zuccheri o grassi alla base del disturbo. Accade per esempio che queste allergie ai cereali siano associate all’intolleranza al lattosio.
Una parte dei sintomi potrebbe essere attribuibile ai Fodmap (acronimo di Fermentable Oligossaccharides, fruttani e galattani, Disaccharides, lattosio, Monoaccharides, fruttosio, And Polyols, alcol e zuccheri, ndr), cibi contenenti carboidrati a catena corta che possono peggiorare i sintomi di alcuni disturbi digestivi”.

“Le intolleranze possono essere transitorie”, ha voluto rincuorare la Giuberti, ammonendo però che “in Italia sono troppi i soggetti che escludono spontaneamente intere categorie di nutrienti fondamentali e troppi i test non scientifici, quindi occorre fare attenzione”.

Dopo questa introduzione scientifica, c’è stato il cooking show di Giovanni Padricelli, chef e docente dell’I.I.S. Vergani Navarra che assieme asi suoi studenti ha dato una dimostrazione dal vivo della preparazione dell’impasto per il pane.

“I cereali hanno tempi di cottura di versi – ha spiegato – più lenti riso e orzo, più brevi gli altri. La farina di grano è la più indicata nella lievitazione, ma spesso subisce dei processi di sbiancatura e viene privata del germe di grano e delle fibre contenute nel guscio che è la parte più nutriente. E poi vengono usati lieviti chimici come cloruro d’ammonio, solfati e fosfati di calcio.
Sarebbe importante tornare a fare il pane in casa. Inoltre non possiamo pensare di usare solo prodotti a base di farina bianca. Per esempio un tempo si usava molto di più il grano saraceno.
Bisognerebbe anche tornare ad usare il lievito madre, che esiste anche liofilizzato, e proviene da una pasta lasciata acidificare e tenuta da parte. Si può usare anche il lievito di birra, ma visto che è fatto di un ceppo unico di batteri, per avere una fragranza più ampia dobbiamo utilizzare la pasta madre”.

E lo chef ha concluso consigliando di “utilizzare 50% di farine forti, come farro, segale, kamut, avena grano e manitoba, e 50% di farine deboli come grano saraceno, orzo, ceci, riso e mais. Questo impasto lievita meno, ma ne ricavo un maggiore contenuto nutrizionale”.

E’ chiaro che questi sono suggerimenti utili per tutti, al fine di integrare una dieta che rischia di fossilizzarsi troppo su prodotti derivati dalla farina bianca di grano, ma per chi ha specifiche intolleranze o allergie il discorso dovrà tenere presenti altre limitazioni.

Al convegno è seguito un ricco e gustoso buffet realizzato da Padricelli assieme agli studenti del Vergani che è stato molto apprezzato dai tanti intervenuti, tante persone comuni affette da problemi alimentari o interessate a migliorare la dieta, accanto a personalità locali del mondo agricolo come Pier Carlo Scaramagli, presidente di Confagricoltura Ferrara, e Stefano Calderoni, neoeletto presidente di Cia Ferrara.

(foto di Stefania Andreotti)

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Stefania Andreotti

Giornalista e videomaker, laureata in Tecnologia della comunicazione multimediale ed audiovisiva. Ha collaborato con quotidiani, riviste, siti web, tv, festival e centri di formazione. Innamorata della sua terra e curiosa del mondo, ama scoprire l’universale nel locale e il locale nell’universo. E’ una grande tifosa della Spal e delle parole che esistono solo in ferrarese, come ‘usta’, la sua preferita.


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