Dopo l’assalto di Forza Nuova alla sede nazionale della Cgil, si è riaperto il dibattito sulle formazioni neofasciste e sulla opportunità del loro scioglimento per decreto. Così era stato nel novembre del 1973 per Ordine Nuovo, a seguito del processo e delle pesanti condanne inflitte ad alcuni suoi leader. Al di là del dibattito e dello scontro tra i partiti, viziato come d’uso da strategie mediatiche, il riferimento fondamentale – anche per verificare la possibilità dello scioglimento di Forza Nuova e Casa Pound – rimane il dettato costituzionale, cosa cioè la nostra Carta dispone rispetto al fascismo storico e ai tentativi di risuscitarlo. Il contributo del costituzionalista Francesco Pallante, che sotto riportiamo, attraverso un’analisi puntuale del testo costituzionale, fornisce utili elementi di conoscenza e di riflessione.
(La Redazione)
di Francesco Pallante
L’entrata in vigore, il 1° gennaio 1948, della Costituzione repubblicana segna una cesura nella storia d’Italia. A fronte del tentativo di trattare il fascismo come una parentesi, chiusa la quale avrebbe ripreso vigore l’ordinamento giuridico liberale imperniato sullo Statuto albertino, s’impone la diversa prospettiva di chi – lungo il sentiero tracciato da Piero Gobetti sin dal 1924 – fa propria l’idea che, dal punto di vista costituzionale, «la questione non sia di difendere [lo Statuto], ma di creare [una nuova costituzione]» (La filosofia di un fascista mancato, in Opere complete di Piero Gobetti, vol. I, Scritti politici, Einaudi, 1997, p. 574).
La prima disposizione della Costituzione repubblicana è il manifesto dell’avvenuta cesura. L’Italia era una monarchia oligarchica fondata sul privilegio. Con la nuova Carta fondamentale, si ribalta nel suo opposto, divenendo una «Repubblica democratica fondata sul lavoro» (art. 1, co. 1). I sudditi si tramutano in cittadini; da discendente, il fluire del potere si fa ascendente; il lavoro perde la sua connotazione negativa e si rinnova in strumento di inclusione sociale. Tale esito era tutt’altro che scontato. La destituzione di Mussolini (25 luglio 1943) apre il campo all’azione di una pluralità di forze che perseguono obiettivi solo parzialmente convergenti. Al confronto che si innesca tra alleati, partiti antifascisti riuniti nel CLN, corona, militari, ex sostenitori e membri del regime fascista si sommano le divergenze interne a ciascuna delle forze contrapposte: una miscela ad alto rischio di deflagrazione. Proprio in ciò sta il «miracolo costituente»: nell’aver saputo ricondurre a unità, nel nuovo testo costituzionale, il pluralismo sociale e ideale liberato dalla fine del fascismo, contenendone, nonostante gli aspri conflitti, i possibili sviluppi distruttivi. Chiave del successo, un articolato costituzionale felicemente compromissorio: tale, cioè, da non poter essere considerato da nessuno come pienamente “suo”, ma nemmeno come totalmente “altrui”.
Tuttavia, se è vero che il testo finale risulta approvato a larghissima maggioranza (453 voti favorevoli a fronte di 62 contrari), è altresì vero che non si deve sminuire, sotto il profilo concettuale, il significato delle posizioni ostili alla nuova Costituzione. Spiegando come nascono le carte fondamentali, Gustavo Zagrebelsky distingue le «costituzioni che comandano» dalle «costituzioni che unificano» (Intorno alla legge, Einaudi, Torino 2009, pp. 230 ss.). Le prime – le costituzioni che comandano – presuppongono che la società sia divisa da un conflitto tra due o più parti contrapposte, che si risolve con la prevalenza di una sulle altre. Tale prevalenza è sancita dalla Costituzione, che pone fine alle ostilità dividendo la società in dominanti (i vincitori) e dominati (i vinti). In casi come questi, la Costituzione è un “comando”, un “colpo di potenza” degli uni verso gli altri. Le seconde – le costituzioni che unificano – presuppongono anch’esse l’esigenza di dare ordine a una società plurale, ma, in questo caso, la pluralità è frutto della compresenza di forze amiche o, se avversarie, comunque non irriducibilmente ostili le une alle altre. La costituzione, di conseguenza, anziché come un «regolamento di conti tra nemici» opera come un «coordinamento tra amici».
È chiaro che quelli ora delineati sono modelli ideali, rigorosamente distinguibili l’uno dall’altro sul piano concettuale, non altrettanto sul piano storico. Ne è evidente dimostrazione proprio la Costituzione italiana, nel contempo atto di unificazione tra le vittoriose forze antifasciste e atto di comando ai danni della sconfitta forza fascista: una situazione fotografata con chiarezza dall’esito del voto finale.
Si comprende, così, come il fascismo risulti doppiamente estraneo all’ordinamento costituzionale repubblicano: perché, sul piano storico, la nuova Repubblica democratica è l’esito della vittoria della Resistenza sul fascismo (come ben si dice con l’espressione «Costituzione nata dalla Resistenza»); e perché, sul piano politico, fascisti e nostalgici del fascismo si ostinano a rimanere tali anche dopo la caduta del regime, rifiutando, con la Costituzione, i principi e le regole del costituzionalismo democratico, per definizione ostile all’assolutezza del potere e, di conseguenza, al fascismo che a quell’assolutezza anelava. Insomma, da qualunque punto di vista – teorico, storico, politico – si guardi la questione, l’antifascismo emerge come il principale tratto identitario della Costituzione italiana: ne è l’elemento costitutivo fondamentale. La doppia funzione – di comando e di coordinamento – della nostra Carta si esprime, con tutta evidenza, nel suo essere articolata, oltre che in norme rivolte a disciplinare i nuovi assi di sviluppo della società italiana, altresì in norme finalizzate a dettare proibizioni nei confronti del fascismo. È il caso della XII disposizione transitoria e finale, che vieta «la ricostituzione, sotto qualsiasi forma, del disciolto partito fascista» (co. 1) e dispone che siano imposte con legge limitazioni «per non oltre un quinquennio dall’entrata in vigore della Costituzione […] al diritto di voto e all’eleggibilità per i capi responsabili del regime fascista» (co. 2). Delle due norme, è senz’altro la prima a rivestire importanza maggiore, per la sua proiezione indefinita nel tempo: il divieto di ricostituzione è imperituro e dettagliato in modo piuttosto preciso nella successiva legislazione di attuazione: la legge n. 645/1952 (c.d. legge Scelba), la legge n. 152/1975 (c.d. legge Reale) e la legge n. 205/1993 (c.d. legge Mancino).
Sarebbe, tuttavia, riduttivo ritenere che la funzione di comando della Costituzione si esaurisca nella sua XII disposizione transitoria e finale. Analoga è, infatti, la funzione delle numerose disposizioni costituzionali che, nel dettare la nuova disciplina democratica dei fenomeni sociali, prendono, più o meno implicitamente, le distanze dal regime precedente. Si pensi all’art. 18 che, nel proclamare la libertà di associazione, si figura le “camicie nere” mussoliniane e vieta le associazioni «che perseguono, anche indirettamente, scopi politici mediante organizzazioni di carattere militare» (co. 2). Oppure all’art. 21, che a tutela della libertà di stampa violentemente conculcata dal fascismo, distingue accuratamente le ipotesi di autorizzazione, censura e sequestro, ammettendo solamente quest’ultimo e con garanzie più stringenti di quelle previste per la libertà personale. O, ancora, a una norma sull’organizzazione costituzionale come l’art. 102, co. 2, che – ricordando la barbarie del Tribunale speciale per la difesa dello Stato – vieta l’istituzione di «giudici straordinari», vale a dire di organi giudicanti appositamente costituiti per vagliare fatti già avvenuti (e, dunque, suscettibili di essere formati in modo tale che la decisione sia pregiudicata). O, infine, sempre nell’ambito dell’organizzazione dei poteri, alla denominazione assunta dall’esponente di vertice dell’esecutivo: non «Primo ministro», come per esempio in Inghilterra, ma «Presidente del Consiglio dei ministri» (art. 92, co. 1), a sottolinearne la funzione di coordinamento tra pari anziché di primazia verso subordinati – com’era, invece, al tempo del fascismo, quando l’analoga figura si fregiava, significativamente, del titolo di «Capo del governo».
Questi casi – e gli altri che potrebbero essere ricordati – significano che l’intera Costituzione, in tutte le sue articolazioni, s’impone come comando ai fascisti e a chi, al di là delle furbizie lessicali dietro cui vilmente si nasconde, all’ideale fascista di fatto si rifà. È dunque errata la posizione che vorrebbe ridurre l’antifascismo costituzionale alla sopra ricordata XII disposizione transitoria e finale, trattando il fascismo come un fenomeno contingente, storicamente circoscritto all’esperienza consumatasi durante il ventennio: una posizione che mira, in ultima istanza, a riconoscere dignità costituzionale a chi, riproponendo posizioni di fatto analoghe a quelle del fascismo, la Costituzione vorrebbe distruggerla, sfruttandone la democraticità a fini antidemocratici – alla maniera in cui un parassita approfitta delle risorse del soggetto in cui s’incista.
Il fascismo, insomma, è fuori dalla Costituzione, e non potrebbe essere altrimenti, perché il compromesso democratico può, per definizione, includere solo chi è disposto a riconoscere il valore delle posizioni altrui, a partire da quelle che non condivide. Aprirlo a includere il fascismo – neo, para o post che sia – significherebbe, oltre che condannare il compromesso alla distruzione sul piano concreto, trasformarlo in una accozzaglia contraddittoria sul piano ideale. Per questo i fascisti non godono delle libertà costituzionali: perché, avendo subìto e subendo la Costituzione nel suo complesso come comando, non ne sono parte attiva, ma passiva. Come ha scritto Paolo Barile, con esplicito riferimento alla libertà di manifestazione del pensiero, ma sviluppando un ragionamento suscettibile di estensione generale, la XII disposizione transitoria e finale Cost. priva l’ideologia fascista della garanzia costituzionale delle libertà (Libertà di manifestazione del pensiero, in Enciclopedia del diritto, vol. XXIV, 1974, p. 470). Di tutte le libertà: quelle individuali allo stesso modo di quelle collettive, come dimostra l’art. 49 Cost., che, nel definire i confini della contesa politica, stabilisce che essa debba svolgersi «liberamente» e «con metodo democratico», così implicitamente escludendo le formazioni politiche che si rifanno al fascismo. Che il fascismo, «sotto qualsiasi forma» si manifesti, possa essere libero e democratico è infatti una contraddizione in termini così lampante che la sua negazione sarebbe di per sé sufficiente a privare di credibilità la Costituzione in cui s’incarna la «Repubblica democratica fondata sul lavoro».
Francesco Pallante è professore associato di Diritto costituzionale nell’Università di Torino. Tra i suoi temi di ricerca: il fondamento di validità delle costituzioni, il rapporto tra diritti sociali e vincoli finanziari, l’autonomia regionale. In vista del referendum costituzionale del 2016 ha collaborato con Gustavo Zagrebelsky alla scrittura di “Loro diranno, noi diciamo. Vademecum sulle riforme istituzionali” (Laterza 2016). Da ultimo, ha pubblicato “Contro la democrazia diretta” (Einaudi 2020) e “Elogio delle tasse” (Edizioni Gruppo Abele 2021). Collabora con «il manifesto».
Questo articolo è già apparso col medesimo titolo sul sito volerelaluna.it
Cover: Militante di Forza Nuova in azione (Wikimedia Commons)
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