Negli ultimi decenni l’inesorabile traiettoria della civiltà occidentale ha sancito l’esistenza di due fratture epocali. La prima è la rottura tra società ed economia derivante dal tentativo di ridurre la prima alla seconda; il distacco tra un società che si vorrebbe ridotta alla sommatoria di comportamenti di consumatori separati ed un’economia che postula l’equivalenza tra persone e consumatori, ha fatto tornare in auge nei modi più strani quelle relazioni e quei rapporti che si connotano in termini religiosi, sentimentali, spirituali, etnici e comunitari ,che la pretesa omologante del consumismo razionalista insito nel progetto di globalizzazione pensava di aver spazzato via in modo definitivo. Una separazione che ha anticipato il distacco dall’economia reale della finanza, diventata cifra del potere e potenza imperante incontrastata a livello mondiale. Queste separazioni sono in parte attribuibili al tradimento e alla miseria di una politica che ad ogni livello ha perso la sua funzione più nobile, quella di guidare, orientare e dar senso alla vita sociale organizzata, per diventare invece braccio e strumento dei poteri finanziari ed economici.
Da questa deriva avrebbe potuto salvare il richiamo costante ai valori contenuti nella Costituzione Italiana che, non a caso, da anni, da destra e da sinistra, si cerca di demolire. L’Articolo 2 cita infatti i doveri inderogabili di solidarietà economica, politica e sociale; l’Articolo 41 tutela dagli eccessi dell’economia di mercato e così recita: “L’iniziativa economica privata è libera. Non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana”.
Si tratta di un tema ben presente anche in altre costituzioni europee come quella tedesca dove esplicitamente si dichiara: “La proprietà impone degli obblighi. Il suo uso deve servire al tempo stesso al bene della collettività”.
Questi richiami istituzionali al bene comune, alla solidarietà, all’utilità sociale non sono tuttavia andati completamente perduti così come non è andata persa definitivamente la volontà di reinserire l’economia nel sistema dei valori sociali. Tra quanti esplorano soluzioni alternative concetti come quelli di economia del bene comune, economia solidale, economia di comunità, economia del dono, economia circolare, economia post-crescita, economia della decrescita felice ed altri ancora, rappresentano altrettanti tentativi di superare un modello dissipativo che sta inesorabilmente corrodendo i fondamenti stessi delle società.
Si tratta di un linguaggio che usa un alfabeto basato sulle nozioni tipicamente sociali di bene comune, fiducia, apprezzamento, solidarietà, etica, condivisione di valori e risorse, diametralmente opposto al vocabolario aggressivo dell’economia dominante largamente ispirato alla metafora della guerra, dello scontro, della competizione senza quartiere e della sopravvivenza del più adatto. Una prospettiva che procede insieme alla convinzione che qualcosa stia cambiando, in meglio, nella consapevolezza delle persone.
D’altro canto sono anche certi esiti inattesi della tecnologia a modificare aspetti che sembravano consolidati e a proporre nei fatti soluzioni innovative. Internet sta cambiando le regole del gioco mettendo in relazione diretta produttori e consumatori, disintermediando le catene di produzione del valore, aprendo le organizzazioni alla possibilità di attingere alle conoscenze disponibili nella folla sterminata di soggetti connessi; l’internet delle cose rende intelligenti oggetti, processi ed ambienti di vita; attraverso big data e gli algoritmi di calcolo dell’intelligenza artificiale si possono estrarre informazioni e conoscenze inimmaginabili fino a poco tempo fa cambiando il modo stesso di fare scienza e ricerca sociale.
In questo contesto mutevole e complesso si afferma la cosiddetta sharing economy, basata sulle piattaforme digitali collaborative e, forse, su un modo differente di vivere la società e di pensare l’economia.
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Bruno Vigilio Turra
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