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L’uomo è ciò che mangia, senza se e senza ma. Gli ideali, le schizofrenie, le depressioni, sono un vezzo dell’Occidente.
Andatelo a chiedere a Diji, Chege, Obi, Njanu e soci quanto sono depressi o quali siano i loro ideali! Andate a chiederlo a loro, in cima all’altopiano del Veld, tra il diciannovesimo parallelo Sud e il trentesimo meridiano Est, in mezzo a un lussureggiante nulla di miseria, fame e malattie. Oppure chiedetelo a Jaime, Pablo, Soto e i compañeros del barrio di Las Majas, nel loro festival permanente fatto di sporcizia, allucinogeni e violenza.
Domandatelo a loro e poi, se sarete ancora in grado di parlare, ditemi cosa vi hanno risposto.
I confini? Sovrastrutture. Ciò che conta è se piove, se fa freddo, se fa caldo, se c’è cibo da mangiare, se c’è acqua da bere… Il mio smartphone possiede una batteria che dura fino a dodici giorni tra una ricarica e l’altra. Io, senza bere acqua per sette giorni, passerei senz’altro a miglior vita, però avrei tanti bei selfie da lasciare in eredità… Il mio smartphone, per costruirlo, hanno consumato mille litri d’acqua: la stessa quantità d’acqua che servirebbe a dissetare cinquanta persone per quei dodici giorni di durata della sua batteria. Quante persone muoiono di sete al mondo in dodici giorni? Non tante quanti sarebbero i selfie che nel frattempo potrei farmi. Potenza della tecnologia, che allontana l’idea della morte dai miei pensieri.
La verità è che siamo fatti di cellule biodegradabili, come i nuovi sacchetti della spesa fatti di pannocchie. Sì, proprio quei sacchetti che ci fanno pagare dieci centesimi in più e si rompono quasi subito: nemmeno il tempo di uscire nel parcheggio e arrivare alla macchina che ti si stracciano in mano, facendoti rimpiangere quei bei sacchetti di una volta, indistruttibili ed eterni. Eppure, adesso più che mai, ci circondiamo di accessori fatti di materiali indistruttibili, ma delicati: si guastano quasi subito e vanno sostituiti con altri identici o quasi, magari un po’ più belli o con qualche vezzosa funzione in più. È il moto perpetuo del consumismo: produrre, consumare e buttare. Poi di nuovo, produrre, consumare, più una variante non bene compresa da tutti: riciclare. Tutti noi siamo figli del consumismo – da notare la curiosa assonanza con comunismo. Anche i vecchi comunisti si sono dovuti adattare alle regole della produzione e del mercato, diventando di fatto consumisti. E i figli dei figli dei figli dei comunisti nemmeno più si ricordano da dove vengono, se non per il fatto che qualcosina l’anno letta nei libri di storia (in via d’estinzione pure quelli). Il nuovo modello ha imborghesito tutti, persino i più radicali, i più anarchici. Ormai quel bel rosso scarlatto, sanguigno, sta diventando sempre più tenue, anemico, un rosato tendente al fucsia! C’è qualcuno che da bravo consumista ha fatto sua l’arte del riciclo, riciclandosi più e più volte. Ma che importa? Basta correre, correre sempre più veloci, l’importante è arrivare prima. Prima di chi? Prima degli altri. E gli altri chi sono? Gli altri sono gli altri!
Esatto! Ci siamo noi, poi ci sono gli altri. Ci sono io, mia moglie e i miei figli, il mio cane, c’è la famiglia insomma (sacra e unica), ci sono gli amici (quelli veri però), la squadra del cuore (sola e insostituibile), la patria (quattro volte campione del mondo), la cultura occidentale (culla di civiltà). Il tutto in rigoroso ordine di appartenenza e prossimità.
E tutto il resto? Tutto il resto sono gli altri, quindi che si fottano.
Ma, come una famosa canzonetta recitava venticinque anni fa, gli altri siamo noi. Noi che ci fottiamo a vicenda, inseguendo quella cosa che chiamiamo felicità, mentre è soltanto benessere.

Ebbene, perché il Pd sta tradendo la Sinistra? Perché i suoi rampanti giovanotti in giacca e cravatta negli uffici dei palazzi strizzano l’occhio a manager prezzolati? Perché i suoi attivisti in lupetto e giaccone nei centri sociali parlano tanto di global no global, coppie gay, ius soli e integrazione, e tanto poco di tutto il resto? Forse perché loro sono loro e gli altri che si fottano?
Il Pd ha copiato il compito in classe, ha sbirciato nel banco della Destra. No, non si tratta di contenuti, per carità, ma di metodi. Anche se poi alla fine ci si dimentica che il metodo usato, prima o dopo, si trasforma sempre in contenuto. Così gli interlocutori cambiano, e dai consigli di fabbrica si passa senza troppo clamore ai consigli di amministrazione delle banche. Ciò che conta è il risultato. E il risultato, da che mondo è mondo, è l’acquisizione del potere. Che altro?
Per il Pd la Sinistra deve cambiare, deve aggiornarsi ai tempi. Deve tagliare quel cordone ombelicale ormai logoro, se non addirittura putrescente, del vecchio proletariato industriale, una categoria ormai sull’orlo dell’estinzione sociale. Poco importa se quei vecchi proletari portarono diritti e uguaglianza tra le persone, poco importa se lottarono e morirono per la libertà, per la salute, per l’educazione e per il benessere di tutti. Oggi le priorità sono altre.
“Per raggiungere lo scopo sarebbe necessario resettare tutto”, avrà suggerito qualcuno ai piani alti. “Certo occorre farlo un po’ alla volta, sennò poi la gente se ne accorge e succede il finimondo! Qualche ritocchino alla Costituzione, qualche ritocchino allo Statuto dei lavoratori…”. Stai a vedere che il nuovo Pd al governo non riesca in una sola Legislatura a far traballare le conquiste ottenute dal vecchio Pci all’opposizione per trent’anni. Roba che nemmeno Berlusconi in vent’anni è riuscito a fare. Casomai qualche recente governo tecnico, per esempio!

E i sindacati? I sindacati sono ormai un guscio vuoto e le loro bandiere sono solo banderuole all’ombra del bandierone con tanto di rametto d’ulivo! Qualcuno di voi, meno distratto di me, si ricorda quando è stato fatto l’ultimo grande sciopero generale nazionale? L’ultima volta che il paese è stato mobilitato da Nord a Sud con manifestazioni di piazza degne di questo nome e migliaia e migliaia di persone chiamate a sfilare in corteo a Roma, Milano, Torino, Genova, Bologna? Io proprio non me lo ricordo. Eppure i motivi per protestare non mancherebbero.
Ho la sensazione che la parola ‘sciopero’ stia diventando una parolaccia anche per quelli del Pd. I loro nonni si rivolterebbero nelle tombe se sapessero: quante bastonate, quanto freddo e quanta fame hanno patito scioperando.
Eh sì, i nonni, i nostri morti. Sulla tomba del defunto viene naturale fare la faccia seria, dire parole solenni, di circostanza, pensando al tempo che passa, al fatto che è tardi e che devi scappare perché ti aspettano altrove. Così molli il nonno, tanto da lì non si muove, lo ritroverai la prossima volta che hai del tempo da buttare. E vai a farti i cavoli tuoi, con tutte le libertà che lui ti ha permesso di usare e abusare, fino al punto di sminuirne il valore e svenderle senza alcun pudore. Intendiamoci, mica tutti i nostri nonni erano comunisti, ma tutti quanti hanno sgobbato come muli per costruirci il mondo in cui siamo cresciuti. Chi da una parte e chi dall’altra, erano tutti in buona fede, pure nell’errore. Ci hanno regalato un mondo imperfetto, ma sincero, noi dovevamo solo smussare le punte e riempire le crepe, renderlo migliore.

E invece? Invece eccoci qua: la gente preferisce protestare a casa propria, urlare in silenzio pigiando tasti davanti ai monitor, ci si scanna a distanza, in tutta sicurezza, perché fuori dalla porta non si sa mai, è un mondo strano, impazzito. Il Pd, come tutti gli altri, lo sa: siamo rivoluzionari da salotto. E dai nostri salotti pagati a rate osserviamo il mondo. Coi computer comprati in offerta e l’abbonamento flat a tariffa agevolata, restiamo connessi giorno e notte per poter controllare e sbirciare in qualunque momento, non si sa mai succeda qualcosa nel mondo senza che ce lo dicano. La posizione è comoda, troppo comoda per spostarsi altrove. Non c’è abbastanza fame, non sappiamo più cosa significhi averla, sentirla dentro, e tantomeno urlarla fuori. E questo grazie o per colpa loro, sempre loro, i nostri nonni. È pur vero che da qualche tempo c’è la diffusa consapevolezza di appartenere a una generazione che, contrariamente al passato, lascerà a quelle future un mondo probabilmente peggiore. La vera tragedia però è l’aria di scorbutica rassegnazione che si respira ormai ovunque. Generatrice di un amorfismo generalizzato che è la più grande risorsa della classe politica, tutta intera, incredibilmente autorizzata a muoversi come le pare, senza dover concretamente render conto ad alcuno che si trovi fuori dal proprio campo sociale politico. Il malcontento tanto sbandierato tra le mura di casa stenta a uscire per strada, ad aggregarsi nelle piazze come accadeva una volta. Come mai? Si tratta forse di un senso di colpa generazionale? Di pudore, vigliaccheria, pancia ancora troppo piena?
Forse se ne saranno accorti tutti quelli che in questi anni hanno perso il lavoro, la propria casa, i risparmi di una vita, la dignità e l’orgoglio di essere cittadini del loro paese. Nessun grido di sdegno, nessun moto di ribellione, solo la speranza degli uni che gli altri risolvano i problemi, e il dissenso disorganizzato e apparente di molti nel silenzio indifferente di tutti. Qualcuno dice: “Embeh? La crisi è crisi! Le fabbriche falliscono e chiudono. Si cerca di salvare il salvabile”. Poi, se guardiamo bene, realizziamo che i ‘salvabili’ sono sempre gli stessi: quelli che non avrebbero nessun bisogno di essere salvati, perché il salvagente ce l’hanno incorporato nelle loro camicie di seta o nelle loro scrivanie di mogano. Non cambia niente, il peggio rimane saldamente primo in classifica.

In questo scenario il nuovo Pd non deve preoccuparsi di tenersi stretti i vecchi sostenitori della Sinistra, quei lavoratori che negli anni hanno via via perso le loro tutele e la capacità di muovere grandi masse di persone e di voti. Quell’universo di elettori abbandonati a se stessi si è smarrito, frantumandosi e dandosi al miglior offerente. Appare sempre più evidente che il Pd, diciamolo, non è più un partito di sinistra, ma di centro, orientato cioè alla definitiva conquista di quella tipica borghesia maggioritaria nel paese, moderata e silenziosa, che per quarant’anni ha votato Dc, compresa quella parte delusa dalle promesse di Berlusconi e insofferente alle volgarità leghiste.
Ma non basta. Per compensare e riempire il vuoto di consenso del vecchio proletariato industriale, condannato alla disgregazione e alla diaspora ideologica, al Pd serve l’appoggio di quello nuovo, emergente e desideroso di tutele: il sottoproletariato degli immigrati, una risorsa incoraggiata e fidelizzata dalle recenti politiche di integrazione promosse in primis proprio da Pd e Sel.
Cosa c’è di meglio, per una forza politica che ambisca al definitivo consolidamento della leadership in Italia, della convergenza in un unico partito contenitore di borghesia e sottoproletariato, uniti giocoforza dall’approvazione di massima di un mondo intellettuale tradizionalmente progressista, da sempre alla ricerca di un partito guida da contrapporre alla Destra?
Che poi si scenda a patti con enti finanziari e banche a scapito di piccoli risparmiatori; che si facciano accordi al ribasso con industriali desiderosi di trasferirsi dove il lavoro costa un decimo; che si chiuda un occhio sulla morale propria e dei propri alleati; che si accolgano volentieri extracomunitari, ben sapendo di poter offrire diritti spuntati guadagnandone pure il consenso: rimane solo una serie di dettagli eticamente discutibili, ma politicamente giustificabili nel lungo termine. Si dice che le scelte siano orientate alla formazione di una borghesia progressista e intellettualmente attiva, di una Chiesa finalmente illuminata e collaborativa e di una società multietnica ben integrata.
Già, dal comunismo al conformismo passando per il consumismo: la metamorfosi borghese del Pd è compiuta!

Per adesso, ciò che vedo profilarsi è l’imminente condanna a morte della Sinistra, almeno di quella che ero abituato a considerare tale, per mano di un carnefice tutt’altro che silenzioso e dal chiaro accento fiorentino.

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Carlo Tassi

Ferrarese classe 1964, disegna e scrive per dare un senso alla sua vita. Adora i fumetti, la musica prog e gli animali non necessariamente in quest’ordine. S’iscrive ad Architettura però non si laurea, si laurea invece in Lettere e diventa umanista suo malgrado. Non ama la politica perché detesta le bugie. Autore e vignettista freelance su Ferraraitalia, oggi collabora e si diverte come redattore nel quotidiano online Periscopio. Ha scritto il suo primo libro tardi, ma ha intenzione di scriverne altri. https://www.carlotassiautore.altervista.org/


Chi volesse chiedere informazioni sul nuovo progetto editoriale, può scrivere a: direttore@periscopionline.it