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di Vincenzo Masini

Continua l’analisi di Vincenzo Masini sulle fenomenologie comportamentali e le problematiche relazionali legate alla rivoluzione digitale e al possibile processo di modifica antropologica e sociale che ne deriva.

La forma mentale attuata per ottenere la sensazione di successo è quella di essere “ON” che si contrappone all’essere “OUT”. Non si tratta più dell’”INgroup” del passato ma di essere “su”, “accesi”, “connessi” nell’esaltazione di aver ottenuto successo.
La vita personale è postata per accendere tali sensazioni ed i rapporti con gli altri sono valutati sulla base del ritorno di successo che danno. La fatica per raggiungere mete ed obiettivi non è apprezzata in sé ma solo in funzione dei benefici di successo che ritornano. Lo stesso vale per la vita di relazione che si riduce progressivamente a sistemi di comunicazione in entrata e in uscita privi di sostanza relazionale ma funzionali solo alla soddisfazione psicologica immediata.
Anche negli adulti la vita relazionale è sconvolta dai cambiamenti in atto, ma la qualità della vita nelle nuove generazioni di nativi digitali può volgere verso un tendenziale disastro, giacché è il senso stesso della relazione ad essere messo in discussione.
Così come negli anni ’70 la problematica dell’esposizione emozionale veicolava una grande quantità di disagi per i giovani, oggi l’esposizione ai modelli mentali della rivoluzione informatica ne propone di nuovi ed inediti.
Ricordo quando si scriveva su questa stessa rivista sulla preoccupante escalation del consumo di droghe negli anni della liberazione delle emozioni: a partire dall’uso di sostanze psicotrope e psicoattive, fino ai problemi emozionali dell’umore ed alla copertura con antidepressivi, emergeva una deriva di destrutturazione dei sentimenti, più fragili e rari delle emozioni, con la correlata caduta di valori.

L’ipocrisia è una comunicazione che finge di essere una relazione
Le malattie relazionali che investono i nostri contemporanei modi di vivere hanno nell’ipocrisia il loro epicentro. L’ipocrisia è un raffinato processo di finzione che mostra un’immagine di sé non veritiera: letteralmente significa agire su un palcoscenico.
Sul piano psicologico l’ipocrisia è prodotta da un processo di attribuzione o dal narcisismo. Nel primo caso le persone spiegano a se stessi, ed agli altri, il significato delle loro azioni come dovuto a cause estranee mentre attribuiscono il comportamento degli altri a vere e proprie scelte. Nel secondo caso il desiderio di essere desiderati induce a costruire un’immagine ed una rappresentazione di sé di gran lunga più attraente, sul piano fisico e morale, di quanto la persona non sia in realtà.
Il nucleo della patologia relazionale, innescata dall’ipocrisia, richiede una lettura molto raffinata giacché essa si può definire come una falsificazione definita come vera nella relazione.
Se, infatti, una persona si propone falsamente nella relazione e l’altro finge di non accorgersi della sua falsificazione (per convenienza, per distrazione, per accondiscendenza, per timore, …) la relazione perde autenticità e si dematerializza trasformandosi in immagine. Chi subisce l’ipocrisia e si adatta ad essa, ne resta contagiato e diventa egli stesso ipocrita, suo malgrado, giacché fingere di non riconoscere l’ipocrisia è ipocrisia. Passo dopo passo, la relazione ipocrita assume il suo particolare stile di ipocrisia. Ciascuna scena relazionale ipocrita determina un’empatizzazione relazionale che nega il vero contenuto della relazione: o si dissocia interiormente pur stando al gioco, o proietta sulla relazione interpretazioni e significati erronei, o, addirittura, la approva come stile di vita di successo.
Nella nostra vita quotidiana possiamo sostenere una certa quantità di ipocrisia (ad esempio nell’innesco delle conversazioni o nelle implicature conversazionali ) e non essere sempre ed assolutamente trasparenti, totalmente aperti e sinceri, ma quando la finzione raddoppia e “si fa finta di far finta” si sviluppa una malattia nella relazione. L’ipocrisia relazionale vige nella doppia finzione di accettare l’equivoco non chiarito e/o la malafede.
La malafede è un comportamento formalmente corretto che maschera le vere intenzioni d’inganno o di dissimulazione degli obiettivi perseguiti. Per Sartre chi agisce in malafede sta, in un certo senso, ingannando se stesso, nullificandosi perché perde l’autenticità della sua coscienza. Una sorta di auto-ipocrisia in cui le voci interiori sul senso dell’azione svolta, o da svolgere, sono messe a tacere dissolvendo la coscienza mediante auto-ipnosi consolatoria e fatalistica. Il funzionamento relazionale dell’ipocrisia agisce a livelli multipli nei mondi della vita ed occorre distinguerla con assoluta precisione dalla falsità e dalla discrezione.
La falsità si può articolare sul piano comunicativo in tre grandi categorie: le menzogne, le bugie e fanfarate. Sono menzogne le comunicazioni false tendenti a nuocere al prossimo, le calunnie, le maldicenze, le istigazioni, ad esempio. Sono bugie le comunicazione false che hanno uno scopo difensivo o fuorviante per difendersi da situazioni critiche. Sono fanfaronate (balle) le comunicazioni false tese a raccontare fatti ed episodi allo scopo di far bella figura, far ridere o tenere allegra una comitiva.

La privacy aumenta l’ipocrisia relazionale
La discrezione nasce dalla necessità di non essere trasparenti su fatti, notizie o idee che mettono in mostra aspetti personali e sensibili ma è stata contaminata dal concetto burocratico di riservatezza per come è tutelato normativamente dalla privacy.
Il funzionamento della privacy infatti appare più come un ostacolo alla trasparenza della relazione (e quindi un incitamento all’ipocrisia relazionale) che non una salvaguardia per il cittadino dall’intrusione nella sua vita privata da parte delle istituzioni. Il controllo elettronico sulla vita delle persone aggira costantemente la privacy: dalla tracciabilità delle carte di credito, delle smart card dei supermercati, dei documenti finanziari su bonifici e prelievi, all’accesso alle mail, sms e tabulati telefonici, fino alle registrazioni dei telepass, dei body scanner negli aereoporti, delle telecamere e dei satelliti.
La tutela della sicurezza in tempo di guerra è un dovere istituzionale ma non diventa crescita relazionale perché non rende partecipi i cittadini di una apertura alla trasparenza relazionale che, oltre a perfezionare socialmente il controllo, consentirebbe una crescita ed un consolidamento delle relazioni. L’eccesso di normatività rende protagonista solo l’istituzione. La legge sulla privacy ha prodotto un diffuso ripiegamento nel privato da parte delle persone, con caduta di relazioni educative, di comunità e di trasparenza negli atti sociali.
Non è un caso che la privacy abbia favorito molti comportamenti di logoramento delle istituzioni come la corruzione e la concussione rendendole socialmente invisibili. Oppure abbia reso discrezionali, mediante formalismi, le gogne mediatiche a cui le persone sono sottoposte.
L’ipocrisia della privacy rappresenta un trionfo per il pensiero burocratico e la dissoluzione degli archetipi della gerarchia.

Vincenzo Masini, 66 anni, genovese, sociologo, psicologo, psicoterapeuta e counselor. E’ stato professore presso l’Università di Palermo, Trapani, Roma “La Sapienza”, Università Pontificia Salesiana, LUMSA, SSIS del Lazio e della Toscana, Università di Siena e Università di Perugia. Studia i processi di relazioni interumane, i conflitti e le affinità interpersonali dagli anni ’80 a partire dall’analisi dei processi criminali (1984, Sociologia di Sagunto: le tipologie di comportamento mafioso, Angeli), devianti e di patologia psicosociale (1993, Droga, Disagio, Devianza, IPREF). Ha analizzato i percorsi di uscita dal disagio nei gruppi sociali (Le comunità per tossicodipendenti, Labos, Ed. T.E.R.; Comunità Terapeutiche e servizi pubblici, Il Mulino;) attraverso l’interazione empatica e linguistica (Empatia e linguaggio, Università per Stranieri, Le Monnier,) e la ricomposizione nelle personalità collettive di gruppo (Personalità collettive in Interessi, valori e società, Angeli). Dirige il progetto nazionale Prevenire è Possibile ed è membro del National Board for Certified Counselor International.

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