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Alzi la mano chi di noi non si demoralizza all’istante leggendo o ascoltando alla televisione e dal vivo i dibattiti di e sull’economia. Ma potrebbe esserci un rimedio, leggere il volume di Andrea Segrè “L’economia a colori” (Einaudi, 2012) che cerca di togliere a questa scienza sociale il grigiore di cui si è ricoperta nel tempo. “Per sfuggire alla tristezza, innaturalezza, macchinosità, vanità, inutilità e soprattutto per uscire dalla sua solitudine, l’economia nel corso del tempo è stata colorata, aggettivata, sostantivata. Da sola non ci sta, deve essere accompagnata da qualcosa. Altrimenti si perde, nella teoria e nella pratica: cioè nella vita. Perché l’economia serve, o dovrebbe servire, a vivere bene: non a sopravvivere”. Questa la premessa da cui parte l’autore, triestino d’origine Preside della Facoltà di agraria dell’Università di Bologna, professore di politica agraria internazionale e comparata e ideatore dello spin-off accademico Last minute market.
Il rosso nel Novecento è stato il colore della Rivoluzione, del socialismo reale, mentre oggi è soprattutto il rosso del debito ecologico, dei consumi indiscriminati delle risorse naturali. Il marrone è il colore della vera economia, quella dei rifiuti e del percolato. Il grigio è il colore della nebbia delle strutture societarie opache e delle sedi disperse, ma anche della materia grigia, del brain power che potrebbe portarci nel futuro, ma che soprattutto in Italia non viene abbastanza valorizzato. Il nero è “il nostro lutto, profondo perché non si vede: sommerso com’è in un oceano buio”. Poi, essendo Segrè economista di campagna, come lui stesso si definisce, che osserva la realtà dal basso, non poteva mancare il verde, emblema della green economy. Ma c’è anche il verdastro, il colore del greenwashing, quello che si limita a dare l’illusione d’esser verde, senza esserlo realmente. E poi il blu, che riconosce un diritto universale come quello all’acqua. Infine, l’arcobaleno, che già dai tempi di Noè e della sua arca sancì l’alleanza tra gli esseri viventi e con le generazioni future. Ecco allora che, se “l’economia a colori potrà fare qualcosa di buono”, sarà “vendere la speranza come nella filastrocca di Gianni Rodari: S’io avessi una botteguccia | Fatta d’una sola stanza | Vorrei mettermi a vendere | Sai cosa? La speranza”.
Attraverso il caleidoscopio di colori e la gamma di aggettivi e sostantivi che nel tempo si sono affiancati al termine e al concetto di economia (sia nel senso economy, i fatti e i fenomeni economici, sia nel senso di economics, la teoria economica), quella che Segrè cerca di delineare è una visione d’insieme che leghi questa scienza sociale alle ricadute che ha avuto e ha nel mondo reale, facendola finalmente scendere – o cadere – dall’iperuranio creato dal turbocapitalismo degli anni Ottanta, molto meno nobile di quel reame delle idee descritto da Platone, essendo il regno delle speculazioni finanziarie e dei calcoli matematici sui derivati all’origine della crisi finanziaria del 2007. Una crisi che non è più, e forse non è mai stata solo, economica, ma anche etica.
Al centro del volume c’è il concetto di relazione, perché la tesi di Segrè è che, per uscire da questa crisi, non basta più parlare di economia sostenibile: bisogna ribaltare la prospettiva fra economia ed ecologia. Economia è il sistema di interazioni che garantisce l’organizzazione per l’utilizzo di risorse scarse (limitate o finite), attuata al fine di soddisfare al meglio bisogni individuali o collettivi. Ecologia, secondo la definizione coniata dal biologo tedesco Ernst Haeckel nel 1866, è “l’insieme di conoscenze che riguardano l’economia della natura; l’indagine del complesso delle relazioni di un animale con il suo contesto sia inorganico sia organico, comprendente soprattutto le sue relazioni positive e negative con gli animali e le piante con cui viene direttamente o indirettamente a contatto”. Entrambi hanno la propria radice nel greco oikos, è ora di ristabilire l’ordine delle cose: l’economia è il governo di solo una parte della grande casa che è il pianeta che ci ospita. È necessario uscire dalla metafora dell’economia come un sistema razionale che funziona come una fredda macchina e cominciare a considerarla come se fosse un organismo che si relaziona con gli altri organismi: iniziamo a parlare di ecologia economica. Ecologia, infatti, contiene anche logos nella sua accezione di dialogo con ciò che ci circonda: gli altri esseri che abitano con noi questa casa-mondo. Da qui la necessità di un’economia del noi, plurale, dopo tanti anni di economia dell’io, singolare ed egoista: il riconoscimento dei beni comuni e dell’esigenza di preservarli, i gruppi di acquisto solidale, il microcredito, la finanza etica, i bilanci di giustizia, il commercio equo e solidale, il cohousing. “In Italia esistono tanti movimenti, gruppi, associazioni […] che da tempo declinano l’economia plurale” che rappresenta un vero e proprio “capitale di relazioni”; ora questa rete dell’economia plurale deve moltiplicarsi all’infinito e diventare una massa critica sufficientemente numerosa per condizionare il sistema. Una massa critica formata da un’ulteriore evoluzione del genere homo: l’homo sufficiens che cerca “l’abbastanza quando il troppo sarebbe ancora possibile. Raggiunge cioè la sufficienza, principio intuitivo oltre che razionale dal punto di vista personale”. E proprio questi homini sufficiens sono solitamente anche “reciprocans” perché sono coloro che “attivano i principi e le relazioni di reciprocità”: lo scambio di beni così non è più impersonale ma si arricchisce della relazione che si instaura tra le parti determinando così un aumento del capitale relazionale.
Secondo Segrè manca però ancora un balzo evolutivo: quello verso l’homo civicus: “è l’uomo che si batte attivamente per la tutela e la valorizzazione dei beni comuni, intesi nella loro accezione più ampia, ossia quella dei beni pubblici e della fiducia. […] Che è capace di andare oltre a ciò che si crede insuperabile: l’utilità individuale e l’autointeresse nel breve periodo, per costruire invece un’azione collettiva, equa, sostenibile e solidale nel lungo periodo”. Segrè scrive, e non si può che essere d’accordo, che “Ne abbiamo un disperato bisogno”.

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Federica Pezzoli



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