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CAPITOLO VI – Sotto la montagna

Procedettero spediti nel largo cunicolo avvolto dalle tenebre che avevano già esplorato e superarono il punto in cui si erano imbattuti nella colonia di pipistrelli, anche se degli animali non c’era più traccia a parte il guano che ricopriva il terreno. Giunsero così al crocicchio in cui il giorno prima avevano deciso di fermarsi e di tornare indietro.
Davanti a loro si apriva uno slargo in cui si distingueva, nella luce tenue e tremolante delle lanterne, una serie di tre gallerie disposte a raggiera.
Greenstone si fermò, posò a terra la lanterna e indicò un punto imprecisato oltre il suo sguardo. «Ora dobbiamo decidere da che parte andare…» disse. Poi tirò fuori la bussola d’ottone dal taschino del giubbetto che portava sotto il pastrano, e fece la sua proposta: «Io direi di procedere nella direzione iniziale, e cioè verso est. L’ingresso della galleria a est mi sembra abbastanza ampio, se la sorte ci assiste è probabile che sia la via principale che porta sotto la montagna… Il regno di Alatapec!» Fece un accenno di sorriso e rivolse lo sguardo al francese, «Voi che ne pensate Jacques?»
«Penso che sia la scelta più sensata, non c’è motivo di cambiare direzione… Continuiamo a est e speriamo che questo dio della montagna oggi sia di buon umore!»
Decisa la direzione da prendere, Sewell estrasse la piccozza dallo zaino e fece un solco ben visibile sulla parete della galleria da cui erano provenuti perché servisse come segnale di riferimento per guidarli al ritorno, dopo di che i tre s’incamminarono nella nuova galleria.
Il terreno era molto accidentato e declinava verso il basso con una pendenza ancora più accentuata. La volta della galleria era fitta di stalattiti appuntite che lambivano le teste degli esploratori. Sewell, il primo della fila e il più alto dei tre, aveva non poche difficoltà a evitare di sbattere la fronte contro quei cunei di roccia che nella semioscurità apparivano all’improvviso. Fu forse  proprio per questo che, tutto intento a controllare la parte alta del tunnel e ignorando completamente il vuoto che si apriva sotto di lui, cadde in una voragine!
Ruzzolò lungo una discesa ripida e ricoperta di pietrisco. I sassi lo accompagnarono nella caduta e ne attutirono i colpi ricevuti mentre impattava sul terreno. Ciò gli permise di raggiungere il fondo in una nuvola di polvere ma praticamente illeso.
Tentò subito di rialzarsi ma non vedeva nulla, solo il buio più totale. Quasi immediatamente giunse il suono delle voci dei compagni che, da qualche parte sopra di lui, gridavano il suo nome.
«Joseph! Joseph, mi sentite?… Rispondete, Joseph!»
«Sono quaggiù Jacques! Quaggiù… ma non so, non vedo nulla… Ho perduto la lanterna nella caduta!»
«Joseph, state bene?»
«Sono tutto intero… credo… a parte qualche graffio, direi che poteva andarmi peggio!»
«Va bene, ora veniamo a prendervi!»
Juan fece passare una corda attorno a una stalagmite posta a ridosso del buco dov’era precipitato Greenstone, la fissò con un nodo semplice, poi imbracò la fune alla vita del francese aiutandolo a calarsi giù. Jacques scese lentamente puntellando i piedi al ripido terreno franoso. Mentre con una mano si teneva assicurato alla fune, con l’altra impugnava la lanterna cercando di intravedere il fondo della discesa.
Quando fu giunto in basso trovò subito Sewell a riceverlo. In una manciata di secondi i due furono raggiunti dall’indio che nel frattempo aveva recuperato la lanterna dello scozzese che non si era danneggiata, la riaccese e gliela porse.
Greenstone si sistemò alla meglio, raccolse lo zaino e controllò che gli strumenti di lavoro al suo interno non si fossero rotti per la caduta. Fortunatamente era tutto a posto.
«Quando vi ho visto cadere ho pensato al peggio…» disse Jaques.
«Come vi ho detto, amico mio, quest’avventura mette tutte quante le nostre vite sullo stesso piano… ed è un piano assai traballante!» replicò lo scozzese che aveva ripreso il pieno controllo di sé. Probabilmente la caduta gli era servita per recuperare lo spirito e la consapevolezza che credeva d’aver smarrito. «Ho la sensazione che finché ci troveremo qua sotto non avrete tempo di preoccuparvi della vostra salute, preoccupatevi piuttosto di dove mettete i piedi… Avete visto cos’è successo a me, giusto?» aggiunse ironico.
«Concordo in pieno Joseph! Credo che almeno quaggiù la malattia mi darà tregua… Magari lascerà che sia un burrone o una belva affamata oppure una freccia avvelenata a finire il lavoro che ha iniziato… vedremo!» si schernì il francese.
«Bene Jacques! E’ così che vi voglio… Un inguaribile ottimista!» concluse Sewell con un mezzo sorriso velato d’amarezza.
A quel punto i tre uomini dovettero decidere se risalire e tornare indietro oppure proseguire l’esplorazione nonostante l’imprevisto della buca. Sewell sollevò la lanterna cercando d’illuminare più che poteva lo spazio attorno a sé. Ben presto si rese conto che erano scesi in un enorme antro di cui non era possibile calcolare l’ampiezza.
L’aria era ancora più fredda e umida, l’eco delle loro voci pareva confermare un grande spazio vuoto tutt’intorno, ma uno spazio reso invisibile da un implacabile muro di tenebre che solo in minima parte la luce delle lanterne riusciva a perforare.
«Ok, a questo punto, se siete d’accordo, direi di cercare di capire bene dove ci troviamo ora…» propose Sewell dando un’occhiata alla bussola, «la cosa più prudente è proseguire il cammino verso est, mantenendo l’ovest come riferimento per il ritorno. Ci faremo guidare dalla bussola e ogni dieci passi lasceremo un segno sul terreno per più sicurezza!»
Lasciarono la fune legata alla roccia in cima alla salita e ripresero il cammino verso l’ignoto.

la Stanley di Greenstone

Percorsero un centinaio di iarde senza incontrare alcun ostacolo, camminavano su una vasta distesa di roccia piana in gran parte ricoperta di pietre rotondeggianti di varie dimensioni.
I tre procedevano con cautela. Greenstone guidava il gruppo mantenendo alta l’attenzione davanti a sé per evitare altre sgradite sorprese. Juan lo seguiva agitando la sua lanterna per illuminare il più possibile lo spazio tutt’attorno. Infine Jacques Verdoux camminava dietro ai compagni e osservava con interesse i propri passi.
All’improvviso il francese s’arrestò.
Si chinò poggiando a terra la lanterna e iniziò a rovistare il terreno, afferrata una conchiglia andò a mostrarla a Greenstone. «Joseph, guardate che ho trovato!»
Greenstone guardò distrattamente l’oggetto nelle mani del francese e disse: «Jacques, la caverna è piena di fossili… È da quando siamo entrati che vedo trilobiti e ammoniti da ogni parte! Questa è materia vostra… pensavo che li aveste notati pure voi!»
L’orgoglio dell’esperto paleontologo non fu affatto scalfito dalle parole un po’ affrettate di Sewell. Il francese porse la conchiglia nelle mani dell’amico e chiarì: «È vero Joseph, la caverna è piena di fossili… Il fatto è che questa conchiglia non lo è!»
Il biologo osservò meglio il reperto, poi esclamò: «Diavolo, è vero! Questo non è un fossile…»
«Esatto!» l’interruppe il francese, «Questa conchiglia sembra sia stata appena raccolta dalla sabbia di qualche arenile, e ce ne sono altre come questa tutt’intorno!»
«Significa che qua sotto vivono o vivevano fino a poco tempo fa dei molluschi, ma soprattutto che fino a poco tempo fa in questo posto c’era l’acqua!» concluse Sewell.
«Direi proprio di sì, e lo conferma anche la morfologia del terreno. Avrete notato Joseph che le pietre sul terreno sembrano levigate e non abbiamo ancora visto l’ombra di una stalagmite da quando ci siamo calati quaggiù! Ho il sospetto che ci troviamo nel letto prosciugato di un lago sotterraneo!»
La voce di Juan irruppe tra i due scienziati, «Sir Joseph, Monsieur Verdoux, prego signori venite da questa parte… Il lago c’è ancora!»
All’appello dell’indio i due accorsero immediatamente.
Il giovane si trovava a una quindicina di iarde dai due e poco prima, mentre gli altri parlavano, s’era messo a perlustrare la zona scrutando nell’oscurità con la sua lanterna, almeno finché non intravide una vasta distesa liscia come uno specchio e ancor più nera del nero delle tenebre che ammantavano tutto il resto. Era la superficie assolutamente immobile di un lago la cui ampiezza, in quel momento, nessuno era in grado di determinare.
Tutti e tre rimasero in silenzio a osservare quelle acque immote e buie per diversi minuti.
Lo stupore e un vago sentimento mistico accomunò tutti: era forse proprio questo il regno di Alatapec? Il fantomatico e leggendario dio della montagna tanto caro agli incas?
Greenstone si stava convincendo che il mondo sotterraneo in cui si trovava fosse in realtà l’enorme guscio vuoto di una montagna cava. Un mondo in cui un’immensa distesa pianeggiante circondava un lago altrettanto immenso. Un mondo magari popolato da creature evolutesi nell’oscurità e quindi in grado di sopravvivere e riprodursi nella più totale assenza di luce. Era incredibile ma possibile, del resto gli indizi erano lì a dimostrarlo.

Juan si chinò immergendo le mani nell’acqua del lago, le unì catturando una manciata di liquido che portò alla bocca e bevve.
«Quest’acqua è gelata… ma è buona!» sentenziò un attimo dopo.
«Riempiamo le borracce… L’acqua del villaggio che ci ha passato Pedro l’altro giorno ha un saporaccio! Jacques, sono sicuro che almeno di sete non moriremo!» dichiarò euforico lo scozzese.
«Magari avvelenati!» insinuò Jacques, «Ho notato che qua attorno ci sono parecchie rocce di pirite e accanto ho visto dei cristalli di zolfo allo stato puro… C’è una discreta possibilità che queste acque siano contaminate!»
«Alludete all’acido solforico? Ma non si avverte nessun odore…»
Greenstone era pensieroso, in effetti i dubbi di Jacques erano più che giustificati. «Juan, come ti senti?» domandò preoccupato.
L’indio guardò l’acqua ai suoi piedi e si passò una mano sulla pancia, «Io sto bene, per me l’acqua è buona!»
«Se Juan sta bene e dice che l’acqua è buona, significa che probabilmente sono acque sulfuree con una bassa concentrazione di solfuri…» si affrettò a dire il francese, «non sono un chimico, però mi sembrava opportuno stare in guardia… Comunque non credo che possano esserci forme di vita in questo lago!»
«E le conchiglie?» obiettò Sewell.
«Non lo so, può darsi siano arrivate quaggiù dall’esterno.» rispose Jacques.
«Ma in che modo?» insistette lo scozzese.
«Professori, forse io lo so!» s’inserì ancora una volta Juan, «Tempo fa ho sentito uno al villaggio che raccontava che la gola di Valverde raccoglieva le acque di piena del Rio Angraves che scorre a nordovest, dalla parte opposta della vallata. Trent’anni fa poi, il governo ha deviato il corso del fiume per irrigare la piana di Oroya, può darsi che questo lago sia ciò che rimane dell’ultima piena dell’Angraves.»
«Giusto Juan! Ora sappiamo com’è finita l’acqua in questo posto! Resta il fatto che non abbiamo visto nessuna conchiglia percorrendo la gola fino alla grotta!» osservò il francese.
Sewell riguardò con attenzione la conchiglia che aveva ancora in mano: era il guscio vuoto di una chiocciola. Era in parte scolorito ma restavano le tracce del suo colore originario, un giallo intenso ornato da striature longitudinali di color marrone. «Conosco solo due tipi di molluschi capaci di galleggiare e di farsi trascinare dalla corrente, uno lo escluderei perché vive nell’oceano, l’altro invece credo proprio sia il proprietario di questo guscio!» spiegò, «Si tratta sicuramente di un’ampullaria! In queste zone i fiumi e i laghi ne sono pieni… La forza della corrente deve averle portate sin qua e qua sono rimaste. Ecco tutto!»
Greenstone osservava il fragile guscio che aveva in mano e pensò che quella doveva essere la spiegazione più logica, anche Jacques ne sembrò convinto.

ampullaria

Rimaneva il fatto che a quel punto bisognava decidere quale direzione prendere, dato che il lago sbarrava loro la strada obbliganodoli a scegliere se andare a sinistra o a destra.
Dopo una breve consultazione, i due scienziati concordarono di proseguire il cammino scegliendo la destra, cioè percorrendo il bordo del lago che, secondo la bussola, si estendeva verso sud.

Il silenzio era totale, l’aria era fredda e pesante. Si sentiva una strana brezza, appena percepibile e a sprazzi, come se da qualche parte in quel luogo di tenebre qualcosa smuovesse l’aria creando dei minuscoli vortici che per brevi tratti investivano i tre esploratori.
Forse quell’ambiente sotterraneo in cui si stavano aggirando era assai più vasto di quanto potessero immaginare, tant’è che la sensazione generale non era affatto claustrofobica, semmai l’esatto contrario.
Per un breve momento Greenstone credette che, alzando lo sguardo sopra la sua testa, avrebbe visto apparire dal buio più totale il bagliore di qualche stella. Prova indiscutibile di non trovarsi più rinchiusi nelle viscere profonde di una montagna, ma in una landa a cielo aperto oscurata da una notte senza luna.
Ma non era affatto così, e Sewell lo sapeva bene. Entro breve avrebbe dovuto decidere di tornare indietro e uscire da lì. La situazione ambientale e soprattutto le loro condizioni fisiche non consentivano ai tre uomini di poter resistere in quel luogo ancora per molto.

Camminavano con passo regolare sul bordo di quell’immenso bacino sotterraneo permeato di mistero. Lo specchio d’acqua alla loro sinistra era assolutamente immobile e silenzioso, tanto che pareva fosse una superficie solida e compatta, un’enorme lastra nera translucida che inghiottiva la debole luce delle lanterne celando tutto ciò che giaceva nelle sue profondità.
Greenstone procedeva in testa al gruppo, gli altri lo seguivano in fila indiana distanziati di due passi l’uno dall’altro. Mentre lo scozzese guardava avanti, Verdoux, che lo seguiva immediatamente dietro, continuava a indugiare lo sguardo in basso cercando di cogliere qualche altro particolare del terreno. Il giovane indio chiudeva la fila e camminava fissando con ostinazione la superficie del lago che, dal primo momento in cui l’aveva scoperto, esercitava su di lui una profonda attrazione.
D’un tratto lo scozzese si fermò, posò la lanterna ai suoi piedi e imbracciò il fucile come aveva già fatto il giorno prima.
Indicò in avanti, puntando il fucile come per prender la mira, e disse: «Credo che davanti a noi ci sia qualcosa di strano, guardate anche voi!»
Gli altri due si portarono al fianco dello scozzese e si misero a scrutare lo spazio di fronte a loro, la luce delle lanterne a malapena rivelò delle sagome insolite poste a una trentina di passi sulla loro direzione di marcia. Sebbene a quella distanza fossero poco più che delle ombre avvolte nel buio, s’intuiva dai loro contorni una forma tutt’altro che naturale.
Dopo poco il mistero fu risolto: i tre uomini percorsero con estrema cautela la poca distanza che li separava da quelle ombre e, quando finalmente le loro lanterne svelarono con chiarezza ciò che li attendeva, rimasero sbalorditi!

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Carlo Tassi

Ferrarese classe 1964, disegna e scrive per dare un senso alla sua vita. Adora i fumetti, la musica prog e gli animali non necessariamente in quest’ordine. S’iscrive ad Architettura però non si laurea, si laurea invece in Lettere e diventa umanista suo malgrado. Non ama la politica perché detesta le bugie. Autore e vignettista freelance su Ferraraitalia, oggi collabora e si diverte come redattore nel quotidiano online Periscopio. Ha scritto il suo primo libro tardi, ma ha intenzione di scriverne altri. https://www.carlotassiautore.altervista.org/


Chi volesse chiedere informazioni sul nuovo progetto editoriale, può scrivere a: direttore@periscopionline.it