Il 25 aprile è la festa della libertà: evitiamo le censure
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Cos’è il 25 aprile? E’ la festa civile più importante della nostra storia nazionale. E’ il simbolo della liberazione da una dittatura che ci aveva tolto diritti e dignità e che, insieme all’alleato nazista, provocò una guerra che distrusse l’Europa e causò decine e decine di milioni di morti. E fu complice della deportazione degli ebrei nei campi di concentramento nazisti. Il 25 aprile è anche all’origine della nascita della democrazia nel nostro paese, i cui frutti eccellenti furono il suffragio universale, la vittoria della Repubblica, l’approvazione di una Costituzione tra le più avanzate del mondo. E’ grazie alla Resistenza e al contributo decisivo degli Alleati che l’Italia è diventata uno Stato di diritto costituzionale, che ha trasformato i sudditi in cittadini titolari di diritti e di doveri.
Se però dovessi ricorrere a una sola parola per sintetizzare il significato profondo del 25 aprile non avrei dubbi: la libertà. Libertà è la parola che più ricorre in quel libro sacro che sono le “Lettere di condannati a morte della Resistenza italiana” (Einaudi). Scegliamo a caso. Walter Ulanowsky, di anni 20, insegnante nato a Trieste, faceva parte della Brigata Garibaldi “Liguria”. Venne fucilato il 19 maggio 1944 insieme ad altri partigiani. Le ultime parole che scrisse sono: “Perché sono qui? Perché domattina mi fucileranno? Per la libertà!”
Questo fin troppo lungo preambolo per motivare il mio dissenso rispetto alla posizione dell’amico Daniele Civolani e contro la petizione che ha raccolto firme per chiedere di togliere i libri di Giampaolo Pansa dal tavolino preparato dalla Biblioteca Bassani per proporre testi sulla data del 25 aprile. Non è mio intento entrare nel merito dei contenuti dei libri scritti da Pansa, perché mi interessa difendere un principio. E’ il principio della libertà di opinione che non può essere messa in discussione proprio nel giorno che rappresenta per il nostro Paese la conquista della libertà. La mia generazione sessantottina ha fatto cose straordinarie per rinnovare il costume di una società per tanti aspetti arretrata sul piano civile e culturale. Però ha anche qualcosa da farsi perdonare. Ricordo, per esempio, una mitica rivista di quegli anni, “Quaderni Piacentini”, che aveva creato una rubrica intitolata: “Libri da leggere e libri da non leggere”. Lungo questa strada ci si cammina sull’orlo di un burrone. Ma ancora di più è la mia parte politica, il Pci, che deve farsi perdonare prese di posizione sbagliate e foriere di conseguenze negative. Mi riferisco, per tutte, alla stroncatura che il responsabile della cultura del Pci degli anni Cinquanta, Carlo Salinari, fece di un capolavoro sulla Resistenza: “I ventitre giorni della città di Alba” di Beppe Fenoglio. Ecco cosa scrisse Salinari sull’Unità, il 3 settembre 1952: “La qualità scadente di moltissimi libri nuocciono alla diffusione dei libri buoni. Proprio qualche giorno fa incontrai un amico operaio che aveva comprato e letto il romanzo di Fenoglio. Era rimasto così disgustato dalla lettura che probabilmente non comprerà più un libro. Fenoglio non solo ha scritto un cattivo romanzo, ma ha anche compiuto una cattiva azione”. Perché ricordo questo episodio lontano? Perché c’entra con il presente. Decretare l’ostracismo verso il più grande cantore della Resistenza, rappresentata nei suoi racconti e romanzi in tutta la sua umana miseria e nobiltà, ha voluto dire costringere per decenni la narrazione di quell’evento dentro una rachitica cornice retorica e demagogica. E poi ci meravigliamo che la Resistenza non dica più niente alle generazioni che si susseguono! Bisogna parlare un linguaggio di verità che è l’unico che trasmette un vero pathos morale e civile. La lotta di Liberazione è stata una guerra civile importante e tragica. Essa ci ha consentito di ritornare nel consesso europeo con la schiena dritta di chi aveva pagato un prezzo altissimo per riconquistare la libertà e la democrazia. Ma non fu una marcia trionfale di eroi duri e puri. Ci furono i martiri, ma ci furono anche fatti ed episodi di inutili stragi e vendette. Tutto va raccontato. Tutto va collocato nel contesto di una terribile guerra europea per sconfiggere il nazi-fascismo. Ma quel contesto non può giustificare tutto. Chiunque si accinga a raccontare fatti, eventi, episodi, accaduti prima e dopo il 25 aprile, fa opera utile. E quando ho letto e conosciuto fatti che hanno disonorato la Resistenza non ho chiuso gli occhi o gettato via il libro. Ne ho, magari, preso in mano un altro che mi consentisse di andare alla radice morale nella comprensione di episodi di cui vergognarsi. Mi riferisco al luogo dei “Promessi sposi” in cui Alessandro Manzoni scrive parole definitive su come si formano e si interpretano i comportamenti morali: “I provocatori, i soverchiatori, tutti coloro che, in qualunque modo, fanno torto altrui, sono rei, non solo del male che commettono, ma del pervertimento a cui portano l’animo degli offesi.” Manzoni ci dice che chi opprime non crea uomini liberi, e che la condizione di offeso non esclude la colpa nel commettere atti negativi. Alla fine di questo lungo discorso è chiaro che ho preso a pretesto l’episodio della Biblioteca Bassani per svolgere qualche riflessione che sono convinto è condivisa dall’amico Daniele Civolani e da coloro che hanno sottoscritto la petizione sbagliata contro i libri di Pansa.
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Fiorenzo Baratelli
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