Ida: un velo, e poi ?
Rigorosamente in bianco e nero, ambientato nella Polonia del 1962, il film racconta la storia di una ventenne orfana, l’austera Ida, senza identità né radici, cresciuta in un isolato, anonimo e buio convento. Alla ricerca di un passato ignoto, la giovane, che sta per prendere i voti, scopre di avere una lontana parente ancora in vita, la zia Wanda, sorella della madre defunta mai conosciuta. L’incontro con la donna segna l’inizio di un viaggio alla scoperta del proprio passato comune, oltre che di se stesse, un vero racconto on the road, dove s’intrecciamo segreti, voglia di conoscere e di assaporare-spremere la vita, tristezza, fede e curiosità di dimensioni esistenziali mai nemmeno lontanamente immaginate.

In un vero racconto di formazione, Ida apprenderà delle sue origini ebree, cercherà di conoscere una zia magistrato rigida, una donna concreta, piena di rabbia e disillusione, impaziente, superficiale, misteriosa, libertina, fumatrice e bevitrice, con un cuore inaridito dagli eventi, dal cipiglio poco amorevole, severa ma tenace e allo stesso tempo fragile, che la metterà inevitabilmente e crudamente di fronte a se stessa.
Il film ci racconta di una Polonia non ancora del tutto riconciliata con la sua storia, invasa dalla Germania nazista, liberata dall’Armata Rossa, entrata, poi, a far parte del Blocco sovietico; ci parla di un paese martoriato, dalle oscure memorie, alla ricerca di un luogo di sepoltura per i genitori di Ida (il cimitero ebraico abbandonato di Lublino), uccisi dal cattolico perbene, loro vicino, principalmente per paura e, quasi sicuramente, per appropriarsi della loro modesta casa di legno.
Le scene ci raccontano della suora ebrea dai lunghi e setosi capelli nascosti (Anna, che scoprirà di chiamarsi Ida Lebestein).

Una storia intensa, straziante, dolorosa, reale, avvincente e carica di umanità, in soli 80 minuti di durata complessiva.

Il formato scelto dal regista è interessante e insolito, dalle proporzioni vicine al 4/3 (il rapporto d’aspetto è 1.37:1, utilizzato tra il 1932 e il 1953), retaggio di un cinema del passato ma anche funzionale alla relazione fra le due protagoniste: l’ampiezza ridotta del fotogramma incentiva una sensazione di prossimità a esse. Ed è proprio la compattezza delle dimensioni spaziali a suggerire il tema sotteso all’intera pellicola, ossia la mancata conciliazione tra l’orizzontale e il verticale, l’alto e il basso, la realtà terrena e la fede, il presente, sfuggente, e il passato storico, tutto da riportare alla luce.
Le fotografie in bianco e nero, vere immagini pittoriche, firmate da Ryszard Lenczewski e Lukasz Zal, riflettono l’austerità dell’epoca, le cicatrici non rimarginate, l’oscurità del non conoscere la vita e il mondo da parte di una giovane e bella Ida, che “non sa l’effetto che fa”.
Il sottofondo musicale è interessante, ritmico, malinconico e romantico. Ascoltiamo brani jazz, suonati dal gruppo del sassofonista-autostoppista incontrato lungo il pellegrinaggio di Wanda e Ida, di John Coltrane e canzoni di Adriano Celentano.

Ida risponderà come può alla domanda di Wanda: come fai a conoscere l’entità del tuo sacrificio nel prendere i voti se non hai mai sperimentato la vita reale? Dove sta la nobiltà del tuo sacrificio? Ida proverà la vita, il ballo, l’amore. Per sapere.
“E poi?”. Appena Ida pronuncia questa domanda, più volte scandita e ripetuta, non si hanno dubbi: da qui passa la forza della sua storia. Con quelle due semplici parole, pesanti come un macigno, la giovane non interroga soltanto il bel sassofonista “zingaro”, suo diretto interlocutore che le parla di futuro, ma per la prima volta, chiama in causa direttamente lo spettatore. Ida sarà pronta per tornare al convento, conscia ora di quello cui davvero, alla fine, rinuncerà.
Una scelta controcorrente, resa evidente dalla giovane, candida come la neve, che cammina, nella stessa neve, verso il convento in senso contrario al flusso delle auto.

Un film sorprendente, sulla Shoah, sulla Polonia, sull’identità e sulle scelte esistenziali delle persone. Un piccolo gioiello, dagli echi polanskiani e tarkovskijani.
di Pawel Pawlikowski, Danimarca/Polonia 2013, 80 mn. con Agata Kulesza, Agata Trzebuchowska, Joanna Kulig, Dawid Ogrodnik, Adam Szyszkowski, Jerzy Trela e Halina Skoczynska.

Sostieni periscopio!
Simonetta Sandri
PAESE REALE
di Piermaria Romani
Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno. L’artista polesano Piermaria Romani si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)