Esistono luoghi che da sempre hanno ispirato e rafforzato il senso di appartenenza, abbattuto barriere sociali, incentivato legami, indotto a una condivisione di qualche tipo. Hanno da sempre favorito un sentire comune, un’esternazione di pensiero ed emotività che porta facilmente ad un sodalizio, alla voglia di aggregazione che funziona secondo proprie regole e propri tempi.
Sono spazi di inclusione riconoscibili, familiari, che profumano di tempi passati, spesso citati nei film e nei romanzi ma esistiti realmente in tutta la loro valenza e caratterizzazione. E forse qualcuno di essi continua ad esistere in qualche piccola realtà urbana, in qualche paese non raggiunto e stritolato completamente dalla contemporaneità. Si possono chiamare ‘Bar Sport’, ‘Cinema Italia’, Parco Caduti, Piazza Garibaldi, angoli di città e agglomerati di periferia in cui arrestare l’estraniante frastuono del mondo per tuffarsi in un’atmosfera più autentica, a misura d’uomo. Parco Caduti di una volta, con le panchine, gli incontri tra proprietari di cani e sorridenti babysitter, anziani in vena di ricordi e compiaciuti operatori ecologici che per un attimo dimenticano il lavoro e si fermano ad ascoltare. Cinema Italia con i seggiolini consunti e tante storie da rappresentare, lacrime commosse e risate, famigliole in cerca di divertimento e spettatori solitari che per qualche ora dimenticano la solitudine. Piazza Garibaldi, dove c’è sempre una fontana circolare con bordi su cui sedere, chiacchierare, fermarsi anche solo per poco con la certezza che qualcuno c’è sempre.
E poi c’è il Bar Sport. Chi non ha mai bevuto un caffè al Bar Sport? Non importa se lo sport c’entra poco o per nulla: l’idea rimane quella dell’apertura, il movimento, la vitalità, l’energia, il calore di un ambiente che nel tempo è andato a perdersi, offuscato o soppiantato da altro. Sono i luoghi mitici della narrazione e dell’ascolto ormai estinti o in via d’estinzione proprio come l’orso polare o il pinguino imperatore; luoghi di senso che hanno esercitato la loro funzione sociale di catalizzatori di sensazioni, pensieri, confidenze, confessioni, dichiarazioni, umori e malumori, progettualità, chiacchiere leggere e ragionamenti impegnativi. Bar Sport era un punto sicuro, luogo di cori di risate ma anche di attenzione e ascolto, sede delle incazzature più genuine, dei grandi proclami su faccende di politica e sport, delle ‘sparate’ così alte da sembrare perfino vere, della tuttologia che serba un fondo di saggezza, delle battutine sagaci, delle confidenze di una cert’ora, delle grandi trasformazioni bicchiere dopo bicchiere: un luogo dove c’era anima, umorismo, semplicità che non è sempliciotteria.
Lo stesso posto che troviamo in “Il bar delle grandi speranze”, (2005), dell’autore statunitense J.R. Moehringer che in questo romanzo racconta la propria vita. Cresciuto senza padre, con una madre indebitata fino al midollo e scappata da vite scomode, viene allevato da zio Charlie, barista al Dickens rinominato poi Publicans. Nel locale l’autore ascolta le storie di molti uomini, seduto su uno sgabello al bancone di legno appiccicoso. Sente il padre che fa lo speaker in radio e parla con quella voce irraggiungibile senza poterla visualizzare, rincorrendola tutti i giorni sulle stazioni radiofoniche. Passano gli anni e inizia a frequentare con successo l’università: studio, delusioni d’amore, esperienze, vita. Continua ad ascoltare le storie dei clienti del Publician, le raccoglie e le scrive ma il bar stesso gli impedisce di progredire e realizzarsi e ogni drink in più è un ostacolo alla sua ascesa. Il padre diventa ogni barista di turno che gli riempie il bicchiere. Deciderà che è arrivato il tempo del cambiamento radicale, si allontanerà dalle tentazioni del bar per ritornare solamente dopo la grande svolta interiore. […] Ci andavamo per ogni nostro bisogno. Quando avevamo sete, fame, quando eravamo stanchi morti. Ci andavamo quando eravamo felici, per festeggiare, e quando eravamo tristi, per tenere il broncio. Ci andavamo dopo i matrimoni e i funerali, a prendere qualcosa per calmare i nervi, e appena prima, per farci coraggio. Ci andavamo quando non sapevamo di cosa avevamo bisogno, nella speranza che qualcuno ce lo dicesse. Ci andavamo in cerca d’amore, di sesso, o di guai, o di qualcuno che era sparito, perché prima o poi capitava là. Ci andavamo soprattutto quando avevamo bisogno di essere ritrovati.” […] Luoghi soppiantati oggi dal proliferare dei non-luoghi, apparsi ovunque dagli anni ’90. Sono i grandi spazi del consumo, diventati segno e simbolo del nostro rapporto attuale con la collettività e col mondo, svuotato e impoverito.
Gli spazi di inclusione attuali, nati e sviluppatisi come grandi scatoloni commerciali nel Nord America degli anni ’40 e ’50, gli Shopping Malls, raccolgono il nostro bisogno di appartenenza in modo automatico e asettico, assecondando il rito quotidiano dell’acquisto, centralità delle nostre esistenze. I non-luoghi vengono trasformati in mete di pellegrinaggio verso le cattedrali del consumo ammiccanti, popolose, promettenti perché si è ‘in’, inseriti in un gruppo sociale, oppure ‘out’, esclusi dalla sicurezza di appartenenza, in base al possesso di un numero minimo di oggetti acquistabili. Questo è ciò che rende palese e inequivocabile la mappa dell’appartenenza o dell’esclusione. Non c’entra nulla l’ascolto, il dialogo, la disponibilità al vero incontro con l’altro perché è ciò che si acquista a diventare anche strumento stesso per raccontare di sé e quindi mezzo di comunicazione. C’era una volta il Bar Sport, racconteremo: non sarà nostalgia, né rimpianto, perché alla fine ci si adatta e si impara a sciorinare altre verità. Ma dovremo convenire come fosse tutto più facile…
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Liliana Cerqueni
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