«Mi ricordo il punto esatto dove passava un carretto dal quale potevamo comprare per 10 lire dei gelati quadrati e due biscotti, ma quando si era vicini alla fine del mese mia madre non mi dava i soldi. La vita era dura anche per i miei, la situazione economica non era florida. Mi stupivo che i fiori sui suoi vestiti non fossero ancora appassiti perché li aveva portati così tante volte che era un miracolo che non fossero sciupati» (Mogol).
I giardini di marzo sono una delle più celebri canzoni scritte da Mogol e cantate da Lucio Battisti. Pubblicata il 24 Aprile del 1972 e scritta in chiave autobiografica, è una metafora della povertà e della timidezza. Il riferimento è all’infanzia di Mogol, alle sue difficoltà economiche e relazionali, alla sua mancanza di fiducia e di coraggio, al suo essere distaccato e sognatore.
“All’uscita di scuola i ragazzi vendevano i libri
io restavo a guardarli cercando il coraggio per imitarli,
poi sconfitto tornavo a giocar con la mente i suoi tarli
e alla sera al telefono tu mi chiedevi “perché non parli?”
C’è chi pensa che nelle scuole, oltre alle poesie, nel programma di letteratura andrebbe inserita anche la canzone d’autore. È difficile pensarla diversamente quando si ascoltano brani come I giardini di marzo poiché altro non sono che poesie arricchite dalla musica, magari con un testo semplice, ma che arrivano dritte al cuore, senza bisogno di grandi spiegazioni.
“Che anno è, che giorno è?
Questo è il tempo di vivere con te
le mie mani come vedi non tremano più
e ho nell’anima,
in fondo all’anima cieli immensi
e immenso amore
e poi ancora, ancora amore, amor per te.
Fiumi azzurri e colline e praterie
dove corrono dolcissime le mie malinconie
l’universo trova spazio dentro me…
Ma il coraggio di vivere, quello ancora non c’è.”
I giardini di marzo (Mogol-Battisti, 1972):
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Fulvio Gandini
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