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I DIALOGHI DELLA VAGINA
Ritrovare la strada per la felicità

Articolo pubblicato il 10 Marzo 2017, Scritto da Riccarda Dalbuoni

Tempo di lettura: 5 minuti


La scoperta della leggerezza dopo un grande vuoto, ritrovare se stessi nonostante l’abbandono. Le nostre lettrici raccontano le scelte e le conquiste sulla via della felicità.

Idealizzare il passato: una consolazione fasulla

Ciao Riccarda,
in genere quando si decide di lasciare andare una persona o una situazione che ci va un po’ stretta è una vera e propria liberazione! Ci si sente spensierate, libere di essere e con tanta energia e voglia di fare (spariscono perfino le rughe!). Per quel che mi riguarda il vuoto arriva dopo… e quella situazione che era diventata insopportabile e opprimente inizia a mancarmi.
A distanza di anni non riesco più a vedere i lati negativi di quella storia ma sento la mancanza di quelli positivi. E’ come se il tempo idealizzasse quel rapporto che non c’è più e quando è il presente a diventare pesante, uso i ricordi del passato per trovare un pò di respiro. Forse quello spazio per noi stesse che ritroviamo solo dopo essere fuggite, dovremmo crearlo sempre.
E.

Cara E.,
mi fido se garantisci che spariscono pure le rughe.
Usare, come dici tu, i ricordi del passato per consolare il presente mi sembra un po’ pericoloso perché il filtro è opaco. Come quando troviamo nell’armadio un maglione datato che ci sembra ancora di moda, ma poi quando lo indossiamo vediamo che di moda non è più.
Succede così anche con quella parte di passato che ci piaceva tanto e che bussa alla memoria per ricordarci che è esistito soprattutto quando il presente è faticoso. Credo sia un falso amico che gioca con la nostra propensione a idealizzare. Niente toglie ciò che è stato, ma quel ciò che è stato dovrebbe farci il piacere di rimanere dov’è e non destabilizzarci, altrimenti non vediamo e non viviamo il nostro oggi che continua a sfuggirci.
Concordo sullo spazio per noi stesse da mantenere sempre, il più è ricordarsi quanto sia giusto e vitale.
Riccarda

Perdersi nell’attesa di una ricompensa che non arriva

Cara Riccarda,
come si misura l’assenza, bella domanda.
Ho convissuto anni con una persona che amavo come non credo sarò capace di amare ancora.
Ho lasciato tutto – paese di origine, famiglia, amici – per seguirla, per agevolarla nel suo lavoro, più impegnativo del mio, anche solo per gli orari estenuanti che comportava.
Ho erroneamente pensato che per quel mio sacrificio lui mi avrebbe ricambiata riempiendo la mia vita della sua presenza, della sua attenzione e della sua dedizione, la stessa che avevo riposto io in lui.
I miei giorni, invece, si sono riempiti di attese.
Usciva il mattino presto e tornava la sera tardi.
Io ero diventata il cane che aspetta a casa il padrone, agognando una carezza. Che arrivava sì..ma distratta…come appunto quella che si dà al cane quando si torna a casa dopo una giornata lunga e faticosa.
Io però non sono un cane. Sono una persona, con esigenze molto più profonde che non il cibo o la passeggiatina fuori per fare pipì.
Mi vergognavo troppo per dire queste cose, che anche ora che le scrivo sembrano così banali.
Il mio mondo girava intorno a lui, per lui. Io, non mi ricordavo più nemmeno cosa mi piaceva fare, tanto mi ero abituata a sentirmi dire che non si poteva “perché lui doveva occuparsi dell’attività” e “non c’era tempo”.
Ma quando ho accettato e accolto la consapevolezza di non essere importante quanto lui lo era per me, mi sono svegliata e ho scelto.
Ho scelto me, e un male che ancora adesso fa male, ma che mi ha ridato la libertà di vivere come piace a me e non in attesa di qualcuno che mi faccia felice.
Perché la mia felicità dipende da me e l’unica assenza che veramente mi può ferire, è la mia.
D.

Cara D.,
lo hai capito da sola: l’assenza di lui era meno grave dell’assenza che tu avevi creato per te stessa rinunciando a tutto e dimenticando cosa ti piacesse fare. Questa è la vera mancanza, quando non ci consideriamo più perchè siamo proiettati verso qualcun altro, quando ci inganniamo pensando che sacrificarsi per lui o lei sia giusto e che una forma di restituzione prima o poi arriverà.
Come dimostra la tua lettera, l’attesa non finisce mai, o meglio, non finisce grazie all’altro che si accorge di noi e allora fa qualcosa. L’attesa e la sua conseguente infelicità, finiscono quando capisci che sei tu a doverti liberare dalla mancanza che, nel frattempo, si è fatta sempre più grande perchè ha fagocitato anche te e le cose che ti rendevano unica.
Ti sei salvata da sola, hai avuto fiducia nella possibilità di uscire da situazioni in cui non esistiamo più, se non di riflesso di qualcun altro.
Riccarda

Più aspettative, più delusioni… e provare ad accettarsi?

Cara Riccarda,
ah… quante aspettative abbiamo verso di loro, illudendoci che con ipersoluzioni si possano cambiare, plasmare, modificare come piace a noi, ma poi cosa rimane dell’uomo di cui ci siamo innamorate?
Le sensazioni di vuoto dopo una rottura sono state diverse per mia esperienza, ma poi ripensandoci bene non era altro che il lascito di cocenti delusioni per non essere stata in grado di trasformarlo a dovere.
La delusione ero io in verità.
Poi, il destino ti fa incontrare chi non si riesce a scalfire nemmeno con la più affilata delle nostre limette per unghie, ed è qui che le nostre insicurezze si trasformano in cambiamento; l’ideale non è quello che ci lascia, ma l’uomo che rimane se stesso, con te, nonostate tu.
C.

Cara C.,
e se ammettessimo che non va bene nè volere cambiare l’altro nè cambiare noi stesse pur di piacere?
Conosco donne stremate dalla fatica nell’uno e nell’altro senso, una fatica di Sisifo perchè a ogni storia è sempre tutto da ricominciare. Se, invece, ci fermassimo a osservare come hai fatto tu, la fatica non avrebbe più ragione di essere: accettiamo l’altro che accetta noi per come siamo. Se davvero avvenisse questo riconoscimento reciproco, non impazziremmo come criceti su una ruota in una folle rincorsa.
Poi, nel tempo, si cambia insieme e ciascuno nel proprio spazio.
Riccarda

Potete inviare le vostre lettere a: parliamone.rddv@gmail.com

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Riccarda Dalbuoni

È addetto stampa del Comune di Occhiobello, laureata in Lettere classiche e in scienze della comunicazione all’Università di Ferrara, mamma di Elena.


Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno. L’artista polesano Piermaria Romani si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE
di Piermaria Romani