È tempo di esame di Stato e il nostro pensiero è per le ragazze e per i ragazzi che sono impegnati a sostenerne le prove. Sono loro i cavalieri dimezzati che escono dalle nostre scuole, vecchie di oltre un secolo e mezzo, rammendate da improvvisati ministri dell’istruzione. Tutto nel mondo ci dice che è urgente per il nostro Paese aprire il cantiere scuola, con uno sguardo lungo nel tempo.
L’atavica sfiducia dello Stato nei confronti dei suoi ragazzi e dei suoi insegnanti, in sintesi la sfiducia nella sua stessa scuola, fa sì che dopo anni di compiti in classe e di interrogazioni, al termine d’ogni ciclo scolastico, ciascun studente debba nuovamente sostenere compiti e interrogazioni, che per l’occasione si chiamano “esami”, per provare quello che evidentemente non è stato valutato lungo tutto il percorso precedente.
In questo eccesso di zelo, ben venga l’Invalsi, con un’unica prova nazionale che certifichi e renda conto a tutto il paese circa le competenze dei nostri giovani al termine del loro curricolo scolastico.
Non sono capace di celebrare l’esame di “maturità” ora di “stato”, non so quale sia l’accezione peggiore. Non amo i riti di passaggio che considero una esclusiva tribale. Non mi piacciono gli adulti che stabiliscono cosa sia positivo o negativo per i giovani, che sentenziano che mettersi alla prova aiuta a formare alla vita, e che mai sono in grado di porsi dal punto di vista dei giovani, senza sostituirsi a loro, come poi nella vita quotidiana di genitori pare essere più facile. Io ti preparo gli ostacoli e le trappole, ma se poi non ce la fai, non restarci frustrato che lo faccio io per te. Queste le nostre schizofrenie e i nostri scarsi sforzi mentali. Così mentre osanniamo o deprechiamo gli esami di stato a partire dalle nostre memorie biografiche, continuiamo a tenerci la scuola che abbiamo e non siamo in grado di pensare diversamente.
Perché, guai toccare il liceo classico, che è la Scuola, la Tradizione, con il suo Greco e il suo Latino, morti, ma pur sempre formativi. Che ormai a frequentarlo siano poche migliaia di studenti non fa di conto. Come poco importa che noi si sia il paese dei “non portati per la matematica”, l’unico che abbia coniato una simile sindrome demenziale, così gli studenti che escono dalle nostre scuole sono come il cavaliere dimezzato, conoscono forse qualcosa della letteratura italiana, non oltre Ungaretti, si intende, ma certo non sanno trasformare una frazione in un numero decimale.
In tanto l’Ocse ha posto in capo al 70% dei nostri concittadini, compresi tra i diciotto e i sessantacinque anni, un bel cappello d’asino, perché non possiedono le competenze minime per vivere consapevolmente nella società e nel loro ambiente di lavoro.
Per non parlare poi dei giovani che si iscrivono agli istituti professionali e tecnici, non perché vi sia un mercato del lavoro pronto ad assumerli, che non è mai stato così avaro, ma semplicemente perché sono giunti a considerarsi poco adatti agli studi, presumibilmente perché il loro percorso scolastico o non è stato dei più gratificanti o certo non ha promosso, quando non li ha respinti, la fiducia in loro stessi e nelle loro capacità. Le percentuali di crescita delle iscrizioni agli istituti tecnici e professionali non stanno ad indicare che la scuola ha sposato il mercato del lavoro o viceversa, temo che invece siano la conferma di una scuola che sempre più seleziona a monte, della scuola della mortificazione e dello spreco dei talenti, anziché della loro reale e concreta valorizzazione.
Tutte cose troppo difficili da prendere a mano. Specie perché questi ragazzi, è la vulgata, non si impegnano, non sanno studiare, sono nativi digitali con appendici che smanettano smartphone, iphone, ipod, ipad e tutti i ritrovati dell’itek. Ma se non si impegnano e non sanno studiare chi glielo deve imparare a questo cristo di ragazzi?
Mai pensare, quasi fosse sacrilego, che dalla Legge Casati, istitutiva della scuola pubblica, si è sempre legiferato non certo concependo l’idea di rendere la scuola il luogo in cui si diventa i cittadini della conoscenza, bensì nella considerazione che le alunne e gli alunni di fronte alle grandi narrazioni dello scibile umano altro non possono essere che i diligenti sudditi del sapere confezionato.
Ma quella società che rendeva sudditi gli studenti e le famiglie, promettendo loro mobilità sociale, riuscita nella vita, un posto di lavoro, non c’è più e non tornerà mai più, è morta, definitivamente defunta.
Tutti i dati delle indagini internazionali sugli apprendimenti ci suggeriscono l’impellente necessità di replicare una rivoluzione scientifica, che ci porti a superare il dispotismo del sapere scolastico così come fino ad oggi l’abbiamo concepito e praticato, restituendo centralità alle nostre ragazze e ai nostri ragazzi, in quanto risorse e non più sudditi delle nostre scuole, in quanto innanzitutto intelligenze da attivare, modi di pensare da coltivare, da condurre fuori dal torpore delle nostre aule e della nostra cultura di massa.
In questo senso, al di là dei proclami politici, è davvero tempo per il nostro Paese di aprire seriamente il cantiere scuola, più riflessione e più operatività che sappiano guardare lontano nel tempo, un cantiere per un nuovo umanesimo, in grado di rimettere con forza al centro il pensiero e la mente di ogni ragazza e di ogni ragazzo, di coinvolgerne e entusiasmarne l’intelligenza, che bandisca ogni merce avariata, fino a segnare il definitivo tramonto dell’omologante, indistinta massa classe.
Diversamente rischiamo che solo per la scuola e per i nostri giovani lo Stato continui ad essere uno Stato Mistagogo e Leviatano, che non è in grado di offrire loro speranze, la speranza del domani, che mortifica ogni possibilità di coltivare i sogni sul futuro, perché pervicace nel pretendere da loro che apprendano il passato senza mai condurli ad imparare il futuro, il futuro di cui hanno bisogno come l’aria che respirano, perché quello, perché il futuro sarà la loro sicura dimensione di vita.
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Giovanni Fioravanti
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