Da: Paola Peruffo
Qualche considerazione in merito alle elezioni del nuovo presidente Usa. Non nascondo che all’inizio di questa estenuante campagna elettorale, da donna impegnata in politica, il mio istinto mi aveva portato a simpatizzare per Hilary Clinton. Non foss’altro che dall’altra parte si presentava un individuo soggetto a forti critiche circa il suo atteggiamento nei confronti del sesso femminile.
Nel corso della bagarre, conclusasi come sappiamo, si sono accavallati eventi e fattori che hanno indubbiamente condizionato l’esito della corsa.
Spendo volentieri due parole sulla teoria del voto di genere. Pressoché tutte le donne vorrebbero una maggiore rappresentanza femminile nei posti di potere. Ma bisogna sempre distinguere tra donna e donna. Hilary Clinton, per la sua storia e per il suo percorso, non ha saputo intercettare il consenso del voto delle donne, se non quello delle fasce sociali più elevate. Ma non è stato solo un fattore di antipatia, come qualcuno vuol far credere. Penso piuttosto all’idea di fronteggiare un avversario maschio e maschilista, contrapponendosi con atteggiamenti a lui troppo simili, anziché sfoderare quelle armi che una donna possiede: pragmatismo, calore umano, attenzione verso il prossimo, estro.
Quella schiera di costosissimi tailleur, mutevoli solo nel colore, hanno rappresentato la sintesi della mancanza di fantasia di Hilary. Nelle occasioni in cui ha cercato di mostrarsi popolare è risultata palesemente finta. Per lei parlava una carriera iniziata da first lady, gravata da un episodio enormemente pesante da gestire. Quel perdono che riservò all’epoca al fedifrago Bill, a posteriori è sembrato come un passaggio doloroso ma obbligato per la sua ascesa politica che, nella sua mente, avrebbe dovuto portare al seggio più alto della nazione.
Poche cose sono apparse più finte di quella rappresentazione di famiglia felice ostentata da lei, marito e figlia. Un vero abisso specchiate all’autenticità e alla verve dei coniugi Obama.
Hilary ha potuto contare sugli attestati di stima dell’establishment più influente, a cominciare dallo stesso presidente uscente, l’appoggio di Wall Street, l’endorsement di tutte le stelle di Hollywood (meno una: Clint Eastwood) il voto palese dell’intelligentia dei salotti di mezzo mondo. Roba da far impallidire la ricchezza monetaria e mediatica di un miliardario come Trump. Tutto questo, paradossalmente, le ha fatto perdere il sogno di poter essere la prima Lady Presidente, e più in generale l’ha fatta assurgere a emblema di un sistema autoreferenziale e fallace per la maggioranza degli americani. Insieme a lei viene rimandata a data da destinarsi l’opportunità di vedere una donna presidente del più potente paese al mondo.
La lezione americana ci insegna che certe scelte non possono essere imposte dall’alto, sperando nella mancanza di spirito critico dell’elettorato.
Di contro la rudezza di Trump è rimasta la stessa, dall’inizio alla fine della corsa. Una schiettezza che forse era l’elemento chiave che gli americani cercavano. Al di là delle dichiarazioni criticabili e criticate, prima e durante la campagna, dal suo discorso iniziale Trump ha lasciato intravvedere il proposito di governare in modo responsabile. Spero sia realmente così, per il bene dell’America, ma anche del resto del mondo.
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