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Incontro Guido Nosari nel mio studio dell’Institute for Cultural Inquiry, poco prima di uno degli innumerevoli incontri settimanali e mensili, durante i quali l’ho conosciuto per la prima volta: lui, giovane artista milanese, ospite per qualche mese presso “Momentum,” fondazione e galleria d’arte berlinese, fondata dalla talentuosa Rachel Rits-Volloch e co-diretta da Cassandra Bird e Jeni Fulton.

Il giovane e talentuoso Guido Nosari ha proposto un’opera d’eccezione: un “Tallit per la Nuova Singagoga” (A Tallit for the Neue Synagoge). Si tratta di una sorta di tela-tessuto gigantesco, composto di diversissimi pezzi di stoffa di vari colori, cuciti insieme con un grosso filo blu (in ricordo del colore blu del “tallit,” lo scialle da preghiera ebraico).

L’opera è stata compiuta in tre fasi:
1. l’identificazione del “centro geografico” dell’opera e la direzione delle direttrici che la collegano a vari punti di preghiera a Berlino.

2. la connessione di tutti i vari punti secondo una complessa opera di rimandi e intrecci, attraverso un solido filo blu

3. infine, la copertura delle direttrici segnate dal filo blu attraverso una serie di stoffe e tessuti supplementari.

Questa singolare opera d’arte ora è esposta, anzi appesa sul soffitto della cupola della “Neue Sinagoge”, ovvero di ciò che resta, restaurato della sinagoga di Oranienburger Strasse, vandalizzata nel 1938 nella “Notte dei Cristalli,” distrutta dai bombardamenti nel 1943 e demolita nel 1958 dalla Ddr, attualmente simbolo della “rinascita ebraica” di Berlino e sede del Centrum Judaicum.

L’incontro con Guido Nosari è informale ma passiamo velocemente al dunque…

Allora, caro il mio Guido: chi sei, cosa fai, perché lo fai? Ma soprattutto: ti pagano per farlo?
No! È una cosa considerevole, questa. In verità mi danno delle agevolazioni: in verità, spendo molto meno di quello che dovrei spendere. Sono qui a Berlino in residenza d’artista, da gennaio ad aprile, presso “Momentum.”
Di mestiere cerco di fare quello che oggigiorno, con una parola che è diventata quasi volgare, si chiama “artista.” È una parola quasi volgare perché legata agli “-ismi”, al fatto di “tendere a qualcosa,” e mai al fatto di cercare di afferrarla davvero, questa cosa… Quindi oggigiorno basta adeguarsi ad una “tendenza” per essere chiamati “artisti” e questo, secondo me, declassa fortemente il tutto. Anche perché tutti oggi possono “fare gli artisti,” non servono più tante risorse o tanti denari.

Cosa vuoi dire? Che sei contro la tecnica, la globalizzazione, il sogno di affrancare l’uomo dal lavoro e quindi di creare spiriti liberi che possano dedicarsi all’arte?

Assolutamente no!(ride) Anzi, più la gente ha la possibilità di esprimersi, più probabilmente è contenta e non rompe le scatole agli altri!
Tuttavia, come in ogni altro periodo storico, sarebbe necessario capire che cosa si sta facendo e perché lo si sta facendo. La libera espressone in sé, per quanto apprezzabile, rischia di diventare priva di valore: fine a sé stessa, se manca di consapevolezza.

Quindi c’è qualcosa che vuoi veicolare con la tua arte? La tua arte è espressione di “qualcosa” oppure espressione “in sé”?

Io posso solo parlarti della mia esperienza personale. Per me l’arte è una necessità. So, lo so perché l’ho provato, che se smetto di fare arte dopo un po’ divento strano, una persona diversa, fino a sentire assolutamente il bisogno di riprendere a dipingere. Quindi: a volte l’arte veicola qualcosa, altre volte no. Ma risponde sempre ad un bisogno. Non obbedisce ad una categoria comunicativa o meno: è una vera e propria necessità. Non ne posso fare a meno.

Quindi l’arte come necessità vitale. Quando ti sei accordo di avere questa necessità? Non volevi il motorino o il Commodore 64

Mio fratello ce l’aveva, il Commodore, ma non me lo lasciava usare…

Ma non te lo lasciava usare? Da qui la frustrazione e quindi la necessità di fare arte?

(ride) No, non c’è stato un momento iniziale ma semplicemente una sorta di continuazione. Mentre gli altri stavano cambiando i loro gusti dell’infanzia, io invece li ho mantenuti. Gli altri hanno iniziato a voler cose diverse, mentre io sono rimasto molto infantile: fin da piccolo volevo disegnare, giocare con i disegni che facevo. E questa cosa mi è rimasta. Quindi sono rimasto molto infantile, in questo senso.

Giusto per citare un poeta che non amo: stai parlando della poetica del “fanciullino”?

(esita) No, no. Mi da fastidio anche solo l’idea di poter categorizzare questa necessità perché quando la categorizzo è come se la guardassi “dall’esterno,” ma non ci riesco. Per me questo bisogno è totalmente interno…

Quindi preferisci farti fotografare in mezzo alla tua arte, come in quella foto fatta alla Neue Synagoge, dove siedi in mezzo alla tela gigantesca?

Sì. Diciamo appunto: circondato dall’arte. Quando uso il tessile… Diciamo: quando ho cominciato ad usare la pittura in modo serio, ci sono davvero “annegato” dentro: nel colore. La pittura mi porta molto giù, mi tira a fondo, mi giungono pensieri che troppo spesso non mi parlano di sopravvivenza. Ed è ovviamente uno stato d’animo che mi distacca fortemente dal mondo e dalle altre persone. Questa è la pittura…
Mentre il cucito, l’arte tessile, ha un ritmo che viene creato dal movimento del corpo ripetitivo che mi mette molto più in comunicazione con la quotidianità, con la vita di tutti gli altri, che dal di fuori mi sembra tutta fatta di minuti e di scadenze.
Quindi per me l’arte tessile mi offre uno spazio di assestamento tra il mio profondo e il mondo che mi circonda, mentre la mia pittura…

(interrompo) Ma anche la pittura ha i suoi ritmi. Se usi l’acrilico… Se usi l’olio devi aspettare che s’asciughi, quando fai l’acquerello devi fare almeno tre o quattro pezzi insieme… Anche la pittura ha il suo ritmo

Sai, forse hai ragione sull’acquerello che è ancora una tecnica che va rispettata in quanto tale. Per quanto riguarda l’olio, le tempere o le gouaches, però, ho molti più dubbi. Una tecnica classica ad olio oggi è per me totalmente inutile. La so usare, ovviamente, l’ho imparata: le velature e tutto… Ma oggigiorno la tecnica dell’olio è totalmente inutile. A meno che non si sviluppi un discorso ben preciso: ad esempio nelle tele io mischio olio e bitume. Non è contemplato nella tecnica classica: olio e bitume interagiscono in modo bizzarro, creano delle bolle… Una cosa orrenda per chi viene da uno “studio classico” della pittura.

Cioè l’olio non è più “attuale”?

No, no. È proprio l’inutilità della tecnica classica dell’olio, non dell’olio in quanto tale. Io uso l’olio per fare quello che voglio fare ma in modo del tutto libero rispetto ai parametri della tecnica tradizionale. Non aspetto che asciughi, ad esempio. Ci metto dentro le dita mentre sta colando, la faccia, mentre è ancora fresco, buttarci del carboncino, che reagisce malissimo, in effetti. Ma se se quello è ciò che voglio esprimere, lo faccio, al di là dei dettati della tecnica tradizionale.
Con “tecnica” non intendo l’uso in quanto tale bensì una “disciplina” – una cosa che vale forse ancora solo per l’acquerello che infatti deve fare i conti con un supporto cartaceo che rischia di rompersi se sfruttato in malo modo, mentre invece la tela, il muro o il legno sono molto più resistenti, sono fatti per venire attaccati frontalmente.

Quindi non sei disposto a seguire i ritmi o le discipline imposte dall’arte in senso tradizionale ma sei disposto a seguire i ritmi imposti dal cucino e dall’arte tessile?

Sì, perché con la pittura ci sono cresciuto e quindi è una troppo complessa per venire ridotta ad un ritmo prevedibile mentre invece il cucito è una cosa con cui ho cominciato a lavorare per non affondare completamente: il cucito è più un’ancora alla quale m’attacco per non rischiare troppo…

È perché cerchi un contatto con una tela? L’arte tessile è una metafora di una tela con cui puoi giocare, tagliare…

Mah, sai, il cucito potrebbe essere un modo di considerare una tela una sorta di “oggetto,” perché nel cucito l’ago va avanti e indietro nella tela. Quindi ogni velleità di prospettiva interna della tela viene automaticamente distrutta da questo gesto. Senza cornice…

Parliamo della “tela” che è esposta, anzi “appesa” nella Neue Synagoge…

Sì. Si tratta di un’opera che ha una particolare finalità espositiva perché è indirizzata comunque ad un pubblico particolare in un luogo particolare: la Neue Synagoge di Berlino. Il “Tallit della nuova sinagoga” parla del dialogo tra le varie religioni, culti e riti. Si tratta di una cosa molto interessante ma soprattutto importante: il dialogo interreligioso. Ho scelto la Neue Synagoge per il valore simbolico della sua storia, almeno a partire dal ’38, con la “Notte dei Cristalli.” Anche il suo archivio… tutto in questo luogo mostra che in assenza di dialogo tra tutte le religioni si rischi effettivamente moltissimo.
L’opera poi ha anche dei risvolti prettamente spirituali, diciamo, ispirata se si vuole da un detto della poetessa Alda Merini: bisogna che ogni artista sia un credente, ma un credente nella realtà, perché in quanto artista è “creatore” e quindi riconosce la forza creatrice della realtà [Nota: nella “Pazza della porta accanto,” la Merini scrive: “ogni madre congeda il proprio figlio al momento della nascita e gli dà vita propria, affinché possa diventare artista, pensatore, creatore, uomo”]. Si tratta di pregare la realtà per il dialogo interreligioso. L’ho fatto quindi con dei mezzi che fossero il più consoni possibili al luogo in cui ero, una sinagoga, e quindi ho pensato ad un tallit gigante tessuto con filo blu, proprio come un tallit…

Ma non con i colori del tallit, che infatti è bianco

No, bianco, ma con tanti colori. Tanti colori collegati, se vuoi, all’idea di “archivio.” Cioè ogni tessuto come “documento:” diverso, col suo colore, la sua forma, la sua consistenza, la sua storia, un suo passato lì, quell’opera – un’opera che diventa “archivio” essa stessa.
Ho usato tessuti diversissimi che ho recuperato da scampoli… Cose legate al passato anch’essi… Tessuti d’ogni tipo…

Quindi un tallit non kasher, visto che dovrebbe essere fatto solo di lino, lana, o cotone – ma non dalla loro mescolanza

Sì. Mi sono mosso con molta libertà rispetto alla natura dei tessuti e dei colori… La cosa più carina è stata quando abbiamo fissato l’opera sul soffitto della cupola: nella stessa settimana mi sono imbattuto nuovamente nel passo dell’Antico Testamento in cui il cielo viene presentato come una “tenda” [Nota: “Egli stende il cielo come un velo, lo spiega come una tenda dove abitare” (Is 40:22)]. È stata una coincidenza molto carina… In verità questa citazione compariva in un libro sulle false credenze del Medioevo, soprattuto su quella che stabiliva che la terra fosse piatta perché altrimenti il cielo non avrebbe potuto appoggiarvisi come una “tenda,” come detto in questo passo biblico…

Quindi questo tallit appeso sul soffitto della Neue Synagoge è anche un cielo? Un cielo colorato?

Sì. La cosa bella di fare un’opera d’arte così grande e che quindi richiede un lavoro molto lungo per essere assemblata è che nel tempo assume molti diversi livelli di significato…

E il filo del tallit?

Il filo è coperto dalle varie cuciture. Resta tutto “dietro”, non è normalmente visibile… È una cosa che m’ha fatto notare un’amica che è un’artista tessile. Il bello di un’opera tessile è che ha due lati: sia il lato che si presenta allo spettatore sia quello che resta nascosto.

…che non è visitabile…

…che non è visitabile, sì. Ma forse non del tutto, in verità. Se l’opera è appoggiata per terra, si può alzare il lembo e guardare sotto com’è fatta e vedere le cuciture. Non è una tela a muro che non puoi toccare. Le convenzioni impongono di non poter rimuovere la tela dal suo supporto e di non poterla spostare… Nell’opera tessile invece poi guardare anche il “retro.”

Ma imponi comunque “una verità,” visto che esponi l’opera in “un verso” e imponi allo spettatore “un senso” unico

È vero. Come artista impongo principalmente ciò che ritrovo anche in me stesso. Anch’io espongo “una faccia” privilegiata a chi mi sta intorno, una piuttosto che altre, un movimento piuttosto che altri… Lo stesso succede con le mie opere. Non vorrei fare un’opera che non avesse “un” senso di lettura, perché anch’io ne ho uno per gli altri. Ma io qui come artista lavoro su “entrambi” i lati: l’ago passa avanti e indietro, migliaia di volte, davanti e dritto, dritto e rovescio…

Non ti sembra che questa sia una “volontà di potenza”?

No. Assolutamente no.
Anche perché, secondo me, la volontà di potenza viene esclusa dell’impatto che l’opera stessa ha su di me mentre la faccio.

Ritorniamo all’opera esposta: perché hai scelto Berlino?

Ho scelto Berlino perché è una città in continuo cambiamento e questa cosa mi intriga molto. Poi, è una città che nel campo dell’arte ha molte facce diverse e contrastanti, piena d’energia… E poi perché sento che Berlino è uno dei “centri” del sistema dell’arte europeo – un sistema di cui faccio parte, che lo voglia o no. Per cui se voglio irradiare qualcosa è meglio farlo dal “centro:” da qui, insomma, da Berlino.
A differenza di altre città, poi, a Berlino è più evidente la contemporaneità di diversi culti: è più visibile. È più sentita. Io vengo da Milano, dove questa cosa non è assolutamente sentita. Assolutamente.

Trovi che sia un difetto tipicamente italiano

Non so. Magari poi è persino una buona cosa. Non va vista necessariamente come una mancanza. Dico solo che ho trovato due situazioni molto diverse…

Be’ del resto la Germania ha molto da farsi perdonare…

Sì certo, ma anche l’Italia, anche se noi l’abbiamo fatto all’italiana… Ma io sono molto dalla parte della Hannah Arendt qui, che crede poco alla questione della “colpa collettiva…”

Non hai mai pensato di fare qualcosa del genere anche in Italia?

Sai qui ci sono da fare delle considerazioni molto più terra-terra… Se in Italia vuoi fare una cosa del genere, avere uno spazio in un museo ed esporre un’opera così grande… be’ è impossibile per un giovane. Forse ora, dopo aver esposto a Berlino, forse sarebbe possibile. Ma l’Italia non è così aperta come può essere Berlino. A Berlino ho trovato cose molto differenti. In Italia se ti rivolgi ad un’istituzione non ti rispondono nemmeno…

… e qui a Berlino, invece?

Qui ho avuto contatti con la Neue Synagoge attraverso l’istituzione “Momentum.” Ci abbiamo messo un po’ a dire il vero. Inizialmente stavano un po’ sulle loro… poi invece ci siamo messi d’accordo. Ci abbiamo messo un mese e mezzo… e poi ho avuto 25 giorni continui per tessere la tela fino alla fine, grazie al materiale tessile fornito dalla galleria “In der Viktoria,” grazie all’aiuto di Natacha Wolters che mi ha fornito tessuti e fili…
Vorrei anche aggiungere che dopo Aprile vorremmo provare a fare un piccolo tour con quest’opera, cambiandole luogo e destinazione, in modo da riempire nuovamente queste strutture, il tessuto, gli intrecci, le stoffe, con nuovi contenuti…

Potrebbe diventare un tappeto? Come in una moschea?

Vorrei evitarlo solo per il rischio di vincolare l’opera ad un solo unico culto. È una cosa che non mi interessa. Al contrario, voglio mantenere una plurivocità di sensi…

… ma l’opera è attualmente esposta in una sinagoga (o ciò che ne resta)

Sì, ma è già previsto che l’opera dopo essere collocata nella Neue Synagoge verrà dislocata! E poi vorrei ricordare che la griglia di fili blu che è stata coperta dai tessuti va in direzione di ogni altro possibile luogo di culto in Berlino: cristiano, musulmano, buddista, ebraico… È una specie di mappa geografica, una piccola mappa all’interno della mappa della città.

Con queste ultime battute mi congedo da Guido che se ne va tra gli svolazzi del suo spolverino nero, così singolarmente diverso dalla sua coloratissima e accuratissima opera, in esposizione alla Neue Synagoge dal prossimo 1 Aprile.

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Federico Dal Bo

È giornalista pubblicista e traduttore, dottore di ricerca in Ebraistica, dottore di ricerca in Scienza della traduzione, residente a Berlino


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