GRANDI AFFARI E GRANDI EVASORI:
ogni anno una montagna di soldi vola nei paradisi fiscali
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“I ricchi devono pagare le tasse. Le leggi sono molto chiare e loro usano ogni modo possibile per sfuggire e portare il denaro nei paradisi fiscali”. Così José Angel Gurrìa, messicano. Non a un clandestino incontro di zapatisti, ma nella sua qualità di presidente dell’Ocse al summit di Davos, “il posto dove i miliardari dicono ai milionari come sta la gente comune”. È la definizione del banchiere Jamie Dimon, che di ricchi se ne intende e ne è componente autorevole.
“Dobbiamo rafforzare i controlli”, insiste il Presidente dell’Ocse. È convinto che sia essenziale dato il tema del forum di Davos, “Stakeholders for a Cohesive and Sustainable World” ovvero “Portatori d’interesse per un mondo coeso e sostenibile”.
Sarebbero 7.500 miliardi, di cui 1.500 appartenenti a cittadini europei, gli euro occultati nei paradisi fiscali. Ce ne sono di accoglienti nella stessa Unione Europea. In quindici anni i patrimoni così collocati si sarebbero moltiplicati di oltre venti volte. Oltre la metà della ricchezza offshore appartiene a ricchi di paesi non dell’Ocse. Tra questi è imponente la crescita dei cinesi. Occultano più di tutti gli europei messi insieme. Inoltre gli Stati Uniti detengono un quarto della ricchezza evasa – più elegante chiamarla offshore – e non aderiscono al Common Reporting Standard, non scambiano informazioni essenziali per arginare l’evasione.
Restiamo a una classifica europea, come calcolata nel 2016 nell’UE: prima è la Germania, seconda la Francia, terzo il Regno Unito, solo quarta l’Italia, che però, grazie alla Brexit, ora può considerarsi sul podio. La commissione del Parlamento Europeo, che ha studiato l’argomento, ha sottolineato che mancano volontà e impegno nel combattere evasione, elusione fiscale, criminalità finanziaria. Inoltre sette Paesi – Belgio, Cipro, Ungheria, Irlanda, Lussemburgo, Malta e Paesi Bassi, spesso pronti a farci la morale – presentano le caratteristiche di paradiso fiscale per le persone fisiche e le multinazionali.
Se il podio per ricchezza imboscata ci è sfuggito nel 2016, sull’evasione complessiva ci siamo prontamente rifatti. Nel marzo dello scorso anno il Parlamento Europeo ha approvato una relazione sui reati finanziari, l’evasione e l’elusione fiscale. Sugli 825 miliardi di evasione fiscale stimati nell’Unione Europea, 190,9 sono attribuiti all’Italia, 125,1 e 117,9 rispettivamente a Germania e Francia. Anche calcolando l’evasione suddivisa per abitante – la ben nota statistica del pollo, se tu ne mangi uno e io niente risulta mezzo pollo a testa, se tu evadi due milioni e io niente, risulteremo evasori di un milione a testa – l’Italia è in cima alla classifica, precedendo la Danimarca dove del marcio, da Amleto in poi, deve essercene rimasto. Il Parlamento Europeo ha rivolto una serie di raccomandazioni agli Stati membri. Forse, considerato che gli evasori utilizzano tutti i servizi pubblici senza averli pagati, vilipendendoli e guadagnandoci pure con lucrose privatizzazioni, si potrebbe, intanto, smettere di dire “fare i portoghesi”.
Magari si potrebbe seriamente operare per recuperare il maltolto dagli evasori nostrani, invece di premiarli con l’ammirazione e ogni sorta di scudi fiscali, grati per ogni elemosina che possono fare. Non è facile. Più facile è inveire contro i poveri che vengono dal mare, come se i guai venissero da loro. Vero che di poveri ne abbiamo già, ma non è colpa dei nuovi arrivati. Li avevamo da prima. Temo che i nostri evasori, recidivi e impuniti, continueranno a evadere “a prescindere”, come direbbe Totò. Non hanno gli scrupoli suoi in “Un turco napoletano” quando si risolve, solo perché in pericolo di vita, a evadere dal carcere di notte. Non vuole che di lui si dica “e-vaso di notte”. Notte e giorno non fanno differenza per i professionisti dell’evasione.
Non bisogna mai perdere la speranza. Ma credo li ritroveremo l’anno prossimo a Davos, lustri e compiaciuti, talora perfino commossi. Immutati nei comportamenti. Così, leggo, hanno ascoltato in religioso silenzio Greta Thunberg annunciare “La nostra casa è in fiamme… qui a Davos amate parlare di storie di successo ma questo successo finanziario è costato un prezzo immenso”. Adottare un motto non costa nulla, soprattutto se è un acronimo suggestivo: ESG, Environmental, Social and Governance. Basta che non interferisca con gli affari.
Offline e molto online – Covid permettendo – sarà il World Economic Forum di Davos 2021. I leader governativi e aziendali globali si connetteranno con 400 città per un dialogo orientato al futuro. L’intento è coinvolgere soprattutto i giovani sul tema dell’incontro, “The Great Reset”, il grande ripristino. Klaus Schwab, fondatore e presidente del Forum, dice che un “grande ripristino” è necessario per un nuovo contratto sociale “incentrato sulla dignità umana, sulla giustizia sociale, e dove il progresso sociale non sia in ritardo rispetto allo sviluppo economico”. Ottimo intento se la dignità umana sarà riconosciuta a prescindere da redditi e patrimoni e sostenuta da misure che assicurino, come pure è possibile, a tutti un’esistenza libera e dignitosa. È il rovescio di quanto fanno attualmente i leader governativi e aziendali.
Questo articolo è recentemente apparso sull’edizione in rete della storica rivista del Movimento nonviolento [www.azionenonviolenta.it]
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Daniele Lugli
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