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Ghiotte piattaforme collaborative
L’anno in salsa Covid 2020 ha visto esplodere l’uso di piattaforme per il lavoro collaborativo (a fianco a servizi di posta elettronica, motori di ricerca, social networking, etc).
Tra di esse, un esempio non a caso è la serie di servizi Google suite, che si è fatta spazio in settori strategici di interesse nazionale come Educazione, Ricerca e Sviluppo. Questo, nonostante le criticità evidenti legate a fare ospitare dati di importanza strategica e commerciale a server di un paese straniero (e non uno qualunque, ma il gigante conclamato della sorveglianza di massa). Scelta per niente ovvia, se si osserva che paesi con tasso di alfabetizzazione informatica ben più elevato del nostro (vedi Francia, Germania, …) si sono orientati verso sistemi sviluppati a livello “nazionale”, o di tipo free1/opensource, con server sul proprio territorio.
In questo articolo non voglio scagliarmi contro sua maestà Google, ma dare qualche ragione ed evidenza che esiste di molto meglio. A maggior ragione, se abbiamo a cuore diritti fondamentali come quelli all’autodeterminazione, all’esistenza di una sfera privata, nonché la sicurezza e l’autonomia nazionali.

Più mondi possibili
Quando si parla di sviluppo ed uso di software free/open source, è importante rendersi conto che il mondo a cui è abituato tipicamente l’utente Microsoft-Google è solo uno di quelli esistenti. In esso: l’azienda prepara un software che mi vuole convincere a usare, io pago la mia copia (in denaro o scambiandola con dati che verranno usati per influenzare i miei comportamenti), ricevo una licenza del software/servizio, mi vengono imposti degli aggiornamenti fino al momento dell’obsolescenza programmata del software/hardware (e sottratti molti dati personali), fine dei giochi.

Quanto al prezzo. Nonostante il costo di duplicazione del software sia quasi zero, il costo associato a ogni licenza è costante e indipendente da quante ne siano state vendute. In sostanza si paga per avere il permesso di usare un software già esistente, sulla base della disponibilità a pagare degli utenti.

Free software, non caramelle
Esistono anche altri modi di sviluppare relazioni proficue tra produttori e utilizzatori di software.
Un esempio è quello del software free. I programmatori/l’azienda che sviluppano un software lasciano libero di accesso al suo codice. Così, i suoi (potenziali-) utenti/programmatori interessati a particolari funzionalità dello stesso software, ne testano alcune parti (per sicurezza informatica, comfort, funzionalità) e forniscono agli sviluppatori indicazioni preziose su come il software potrebbe essere modificato. Tale prolifica commistione arriva al punto che i due ruoli possono anche in parte scambiarsi. L’utente non acquista una licenza del software (che è a libero accesso) e non rinuncia alla propria privacy (avvallando quella sottile e impalpabile erosione dell’autodeterminazione che oggi domina internet). La dinamica collaborativa e di feedback permette all’azienda di risparmiare sui costi di sviluppo e agli utenti di procurarsi strumenti più adeguati ai loro veri bisogni.
Il business delle aziende/sviluppatori a tempo pieno è spesso basato sulla vendita del supporto tecnico (solitamente a grandi aziende ed amministrazioni pubbliche), oltre che  possibili donazioni. Oppure, nel caso di  piattaforme online, dagli abbonamenti ai server che ospitano il software in questione. In altre parole, si paga per l’uso dell’infrastruttura e il supporto tecnico ricevuto, cioè per il costo di produzione del bene.

Se vi chiedete quale sia la portata del fenomeno Free/Open Source, basti sapere che buona parte (se non la maggior parte) del software disponibile online è proprio di questo tipo.

Un esempio
Preambolo e ragioni a parte, vi presento una tra le più attive piattaforme sviluppo di software collaborativo a me note: Nextcloud.
Nextcloud è una piattaforma per il lavoro collaborativo Free Open Source, ospitata su oltre 250mila servers nel mondo, tra i quali, ad esempio, una parte del settore Ricerca e Sviluppo pubblico francese. Essa contiene decine di applicazioni diverse tra loro, che vanno dalla posta elettronica allo stoccaggio e sincronizzazione su cloud dei propri dati, agli applicativi per videoscrittura, chat, calendari, gestione economica, organizzazione del lavoro, ….
Nextcloud non vende istanze dei propri servizi (ma vi fornisce i nomi di aziende e servers referenziati che lo fanno al posto suo). D’altra parte, idea geniale, Nextcloud propone in vendita servers (anche di piccola taglia e costo) con tutti i servizi Nextcloud pre-installati, in modo da permettere il “self-hosting” dei propri dati (ospitarli su un proprio server), e di coloro che partecipano alla stessa piattaforma collaborativa.

Conclusione
Questo mostra, con uno tra tanti esempi possibili, che un altro modello di sviluppo non solo è possibile, ma sta là fuori ad aspettarvi.

Note:
free software non significa software “gratuito”. Da manuale, un software si dice free quando rispetta quattro “libertà essenziali”: 1) di essere usato nel modo e per gli scopi che l’utilizzatore desidera; 2) la libertà di studiare e modificare il funzionamento del programma, il che implica libero accesso al codice sorgente; 3) la libertà di ri-distribuire delle copie del programma; 4) la libertà di poter distribuire a terzi copie del programma modificato.

Cover: con licenza CC0 1.0 Universal (CC0 1.0) Public Domain Dedication

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Francesco Reyes



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