E mentre il furbetto scavalca i diritti degli altri, i turni, le disposizioni per accedere più in fretta, prepotentemente e senza remore, ai servizi vaccinali, all’inserimento in quella o l’altra lista, ai posti disponibili nell’assistenza, o anche solo davanti a un supermercato, scavalcando e sgomitando, c’è anche chi mantiene dignità e compostezza in un clima di esagitazione.
Mi piacciono gli anziani, quelli che non spintonano per avanzare nella coda e attendono pazientemente il loro momento, in silenzio, o magari un po’ borbottando, ma saldamente attaccati al loro concetto di ‘dovere’ nei confronti della comunità e a un’integrità morale costruita nel tempo, alla quale non rinunciano nemmeno nel pieno di una pandemia.
Sono sopravvissuti al laido gioco dei posti letto, della precedenza a categorie ‘più indispensabili’ alla società, all’indifferenza contenuta nelle parole di qualcuno che li voleva ‘morti’ ancor prima che succedesse, in una corsa forsennata a scegliere chi più conviene.
Parlano con voce stanca, a volte sommessa, ai microfoni di qualche giornalista che chiede opinioni e pareri sulla sanità tra i passanti. Qualche nonna stringe al petto con forza la borsetta, qualcuno regola istintivamente la mascherina sul volto, qualcun altro allarga le braccia sconsolatamente, altri raccontano orgogliosamente di aver avuto la fortuna di essere aiutati a farcela e ce l’hanno messa tutta anche loro.
Hanno uno sguardo diverso dagli altri, che contiene una profonda sapienza e tanta commozione. Non è insolito vederli aggirarsi – coloro che possono godere di autonomia di movimento – per le vie o i parchi pubblici con cautela, lentamente, passo dopo passo, misurando forze e spazi secondo le proprie risorse fisiche, reggendo una borsa della spesa non troppo pesante e fermandosi a fare due parole se appena trovano disponibilità.
I nostri anziani ne hanno passate tante e molti ricordano ancora echi ed esiti di una guerra che ha travolto nazioni intere e le loro giovani vite di allora; raccontano qualche episodio, quello più significativo ed emotivamente impattante e per un attimo ritornano i protagonisti di quella loro parentesi di storia, esclamando a volte ‘si stava meglio quando si stava peggio’ oppure ‘era la misera più nera, meglio adesso’ o ‘non avrei mai detto che succedesse questo’.
Forse non si abitueranno mai a quel nuovo linguaggio che sentono in TV e nei discorsi dei figli e dei nipoti, fatto di lockdown, smartworking, dad, cluster, spillover, il salto di specie che li ha fatti scoprire anche l’esistenza del pangolino (ma quest’ultima scoperta è trasversale ad ogni età). Il nuovo linguaggio della pandemia li disorienta, anche se va meglio con i colori delle regioni, almeno quelli sono facilmente riconoscibili e associabili e con i termini di vecchia memoria che suonano tanto familiari, come fronte, trincea, prima linea, eroe che andavano per la maggiore nella prima ondata e ora caduti un po’ in disuso.
Non parliamo di ‘resilienza’ e ’paucisintomatico’: sembrano perfino un insulto davanti a chi ha trascorso gli anni della resistenza vera, del rischio, della precarietà, della totale insicurezza in eventi incontrollabili. Io amo questi anziani che stanno assistendo al declino di un’epoca che stentano a riconoscere perché destabilizzante, eppure non rinunciano alla loro dignità e fermezza nei valori che hanno coltivato.
Apologia dell’anziano? No, soltanto una grande riconoscenza per ciò che rappresentano, i volti saggi della nostra storia che ci hanno preceduto, lasciandoci tracce di inestimabile valore, costruite anche attraverso errori, tentativi a volte non riusciti, sogni infranti e imperfezione, come chiunque, come tutti.
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Liliana Cerqueni
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