Giovanni Bianchi: una politica che insegue gli applausi, una società governata dai mercati
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Giovanni Bianchi è stato presidente del Partito Popolare Italiano dal 1994, deputato per tre legislature, è stato artefice dell’alleanza dell’Ulivo e relatore della legge per la cancellazione del debito pubblico dei paesi del terzo mondo. Presidente delle Acli dal 1987 al 1994, è tra i fondatori dei Circoli Dossetti. Vi proponiamo una conversazione con lui sulla politica e sulle politiche che servirebbero oggi nel difficile frangente che sta attraversando l’Italia.
Professor Bianchi, viviamo in un periodo di grandi e drammatici cambiamenti. Qual’è l’attuale ruolo della politica in Italia e quale dovrebbe essere a suo parere?
Un gruppo di giovani sociologhe americane ha coniato il verbo ‘surfare’ per dar conto delle politiche in atto. La metafora (ovviamente veloce) indica l’atto di chi su una tavoletta sa stare in equilibrio sulle immense onde dell’oceano. Dunque non sarà il caso per lo spericolato atleta politico, tutto preso dalla difficoltà e dalle vertigini dell’esercizio, di porsi troppi interrogativi sulla natura del moto ondoso, né sul grado di salinità dell’acqua.
E se vogliamo continuare a viaggiare per metafore, con l’intento di sistemarle all’interno di una mappa delle politiche odierne, volendo dare a ciascuno il suo, è opportuno ricordare che la metafora della ‘società liquida’ discende da Zygmunt Bauman, che alla società liquida corrisponde la politica senza fondamenti (Mario Tronti) e perfino la cosiddetta anti-politica, il cui confine è da sempre poroso, ossia percorribile nei due sensi: dalla politica all’antipolitica e dall’anti alla politica (Hannah Arendt).
Si può anche utilmente aggiungere che alla società liquida fanno riferimento i partiti ‘gassosi’ (Cacciari) ai quali corrisponde il dispiegarsi di politiche in confezione pubblicitaria, nel senso che evitano la critica del prodotto da piazzare e hanno progressivamente sostituito la propaganda politica di un tempo per veicolare il messaggio pubblicitario utile a suscitare non tanto senso di appartenenza, quanto piuttosto un’emozione imparentata con il tifo sportivo (Ilvo Diamanti).
Visibilmente la nostra bella penisola non è circondata dall’oceano, ma da mari (in parte) storicamente domestici; eppure i surfisti popolano – incontenibilità della globalizzazione mediatica – anche le nostre spiagge politiche.
Ma c’è di più: nel giro di otto anni la società liquida ha liquefatto ovunque l’ascensore sociale. E basta avere la pazienza di leggere le 928 pagine dell’edizione italiana de “Il capitale nel XXI secolo” di Piketty per rendersi conto di come la liquidità si sia raggrumata in una struttura castale (Dossetti), disponendosi intorno al comando dei gruppi di potere che detengono le nuove rendite patrimoniali e orientano il capitale finanziario.
Quel che dunque manca in queste politiche è soprattutto un punto di vista condiviso dal quale osservare la realtà, anzi ci imbattiamo in una condizione inedita nella quale i conti prima che con la realtà vengono fatti con la sua rappresentazione. La rappresentazione cioè ha riassunto in sé il mondo intero e le politiche chiamate a descriverlo (e sempre meno a cambiarlo). Stava infatti scritto nel Manifesto del 1848: “Tutto ciò che è solido si dissolve nell’aria”.
Ma sarebbe fuori strada chi pensasse che il problema sia solo ed essenzialmente teorico. È invece anzitutto, come sempre quando si parla di politica, un problema urgentemente pratico. Ha ragione papa Francesco quando afferma che i fatti valgono più delle idee. Ed è sempre papa Francesco ad avvertirci di evitare l’eccesso diagnostico, perché anche di sola diagnosi si muore. Riusciamo cioè a prescriverci ogni volta, dopo la diagnosi, almeno un’aspirina?
In effetti – oramai dovrebbero averlo capito tutti – siamo governati dai gruppi di potere finanziario e dalle multinazionali: quella che si potrebbe definire ‘governance dei mercati’. I mercati però non sono in grado di governare se stessi. Le banche sono globali finché godono di buona salute e ritornano nei confini statali quando rischiano di morire. Lo schema è antico e collaudatissimo: profitti globali e perdite (e ricostituenti) nazionali. La grande crisi americana del 2008, innescata da Lehman Brothers, è un paradigma che non cessa di funzionare.
Non esistono tuttavia grandi vecchi o burattinai globali. Nessuna visione complottista aiuta intendere i problemi. Ma questa constatazione complica ulteriormente le cose e dice quanto sia difficile governarle.
Vaso di coccio tra altri più robusti, la politica italiana si muove nella tensione tra i due poli di governabilità e democrazia. Con due evidenze: che una democrazia senza governabilità perisce e che il massimo della governabilità può coincidere con il minimo della democrazia. Per questo le nostre politiche hanno urgente bisogno di costituire visibilmente i rispettivi punti di vista e di organizzarli: dal momento che un pensiero politico è tale solo quando viene organizzato. Il ritardo è preoccupante, perché dalla caduta del muro di Berlino noi siamo l’unico Paese al mondo ad avere azzerato tutto il precedente sistema dei partiti di massa.
Non necessariamente quei partiti vanno ricostituiti, ma un progetto politico non organizzato è destinato alla precarietà delle liste elettorali che danzano una sola estate. Soltanto riproponendo un progetto politico organizzato e condiviso (e insieme una credibile etica di cittadinanza) la transizione infinita potrà terminare. Con l’avvertenza di collocare la democrazia tra i beni comuni, insieme all’energia e a un’ecologia integrale.
Lei ha maturato una lunga carriera politica. Che caratteristiche dovrebbe avere un buon politico italiano per essere protagonista positivo in questo periodo travagliato?
Penso che tra le virtù di un buon politico italiano dovrebbe esserci il coraggio di andare controcorrente. Lo spirito critico è un modo per prendere le distanze dallo spirito del tempo, che non ha l’abitudine di interrogarsi sulla propria bontà. Mi stupisce ogni volta assistere alle esibizioni di personaggi che dichiarano di procedere ‘senza se e senza ma’. Continuo a pensare che i se e i ma sollecitino la riflessione, che dovrebbe distendersi ogni volta prima della decisione. Il buon chirurgo non perde tempo con le risonanze magnetiche e le Tac: intende, invece, avere chiaro il quadro prima di un intervento.
In secondo luogo il buon politico dovrebbe tornare a frequentare il territorio, più degli studi televisivi. Pochi in Italia immaginano le fatiche che un candidato statunitense si sobbarca durante le primarie. Di Hillary Clinton si diceva che non ci fosse piastrella dello Stato di New York che non avesse calcato con i suoi tacchi.
I vizi dei politici sono pressappoco i medesimi in tutto il mondo globalizzato. I ritmi e in certi casi l’involuzione della politica italiana fanno sì che i nostri politici privilegino i rapporti di corrente e i legami con il proliferare dei ‘cerchi magici’, rispetto al dialogo con l’elettorato di collegi che di fatto hanno cessato di esistere. Il vizio principale dei politici italiani in questa fase è privilegiare la scia (e gli applausi) alle diverse leadership, piuttosto che l’ascolto e la cura degli elettori. Non si tratta di trasformarsi in populisti (già fatto): basterebbe praticare un ascolto intelligente.
Il buon democratico sa ascoltare e soprattutto si informa, non soltanto facendosi passare i dati dagli esperti, ma entrando nel vissuto dei problemi. Ci sono avvenimenti e questioni che non si intendono se non in presa diretta.
Negli ultimi decenni sono state rivolte notevoli critiche alla nostra Costituzione. Lei ritiene che sia ancora un fondamento valido per la democrazia italiana?
Tutte le Costituzioni sono fatte per complicare le cose piuttosto che per semplificarle. Perché il loro compito è garantire e bilanciare i diversi poteri, a partire da quello esecutivo. In secondo luogo per mettere mano a una riforma costituzionale è necessario ci sia nel Paese e nei corpi legislativi uno spirito costituente: non si tratta, infatti, di ingegnerie di breve periodo e corto respiro. Basterebbe informarsi sul lungo processo di gestazione della Costituzione degli Stati Uniti d’America, che funziona da secoli e che prevede perfino la data delle elezioni presidenziali.
Personalmente condivido le critiche al bicameralismo perfetto, introdotto nel testo per le reciproche diffidenze che caratterizzarono nella Costituente e nel Paese i rapporti tra le due maggiori forze politiche: la Dc e il Pci.
Intesa complessivamente la nostra Costituzione è figlia della guerra e della Resistenza. Ma è anche figlia di un clima generale che si respirava all’Onu, a Bretton Woods, e che ritroviamo nei famosi cinque punti del discorso al Congresso americano del presidente Roosevelt.
Il verbo più bello del testo, “l’Italia ripudia la guerra”, sarebbe stato introvabile e impensabile al di fuori di questo clima. Il tenore del nostro testo è quello del personalismo costituzionale introdotto da Giuseppe Dossetti e fatto proprio nella seconda sottocommissione anche da Palmiro Togliatti, che pure affermò di avere un diverso modo di concepire la persona umana. Davvero non saprei trovare un riferimento per l’idem sentire superstite di questi italiani al di fuori della Costituzione del 1948.
Ha ragione Valerio Onida quando afferma che la Costituzione ringiovanisce vivendola. Ed è persino banale osservare che entra in rotta di collisione con il testo qualsiasi tentativo di piegarlo a interessi di bottega, di parte o personali.
Dovendo scegliere tra i vari problemi che affliggono l’Italia, quale ritiene sia oggi il più importante, quello da affrontare in via assolutamente prioritaria?
Non ho alcun dubbio che il problema cruciale del Paese sia il lavoro e la sua mancanza, perché – come scrisse anni fa Aris Accornero – “il lavoro che manca stanca di più del lavoro che stanca”. Il lavoro è, inoltre, il primo ordinatore sociale, per la sua capacità di integrare nel tessuto civile prima e più della legge.
Lo testimoniano le migrazioni dal Mezzogiorno nell’immediato dopoguerra e i destini dei migranti approdati nel nostro Paese. Se si avvia a soluzione il problema del lavoro, anche gli altri problemi otterranno ben presto un assetto soddisfacente. In questo senso dunque vanno orientate le energie. Qui le attenzioni e le strategie vanno concentrate.
Perché gli antichi padroni delle ferriere, i signori del fordismo, hanno deciso negli anni Ottanta di seppellirsi nel cimitero dorato dei finanzieri? Perché non mettiamo sotto la lente il sistema bancario – anche i banchieri sono classe dirigente – le sue modalità di intervento in ordine allo sviluppo e al temperamento delle disuguaglianze?
Non sono una lobby di filantropi i banchieri tedeschi, ma il loro rapporto con le imprese sul territorio richiama molto da vicino la prassi che fu delle Casse Rurali e Artigiane italiane. Insomma le banche tedesche non si sono lasciate risucchiare tutte nell’universo finanziario e nella sua avidità, pur ovviamente avendo di mira – si pensi a Deutsche Bank – i profitti, come tutte le banche del mondo.
C’è dunque un problema di direzione e di rappresentanza che non riguarda soltanto le istituzioni democratiche. Una democrazia, infatti, cresce nelle sue rappresentanze civili prima di confrontarsi con la geometria delle istituzioni. E’ questo il luogo dov’è possibile discernere se ci si trova in presenza di un ceto politico, interessato a perpetuarsi, oppure di una classe dirigente decisa a mettersi in gioco.
E una classe dirigente non può evitare di misurarsi con il problema del lavoro. Il precariato, infatti, rischia di trasformarsi da problema generazionale a piaga nazionale: una vera sfida antropologica.
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Bruno Vigilio Turra
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