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Quante volte capita, oggi, a noi giovani studenti, di rimanere in silenzio alla domanda: “Cosa farai dopo l’università?” Troppo spesso ci fermiamo a pensare al nostro futuro, ma finiamo solamente per sentirci avviliti e demoralizzati!
Abbiamo un’infinità di sogni, ma pochissime possibilità di realizzarli.
C’è chi dopo un percorso universitario triennale spera di trovare lavoro; chi prosegue gli studi con una laurea magistrale e, dopo anni di inutili tentativi, ha come unica possibilità quella di svolgere lavori sottopagati. Poi ci sono quelli che per colmare l’attesa riempiono il curriculum con seconde lauree, master e stage; infine la maggior parte di noi cerca fortuna all’estero, ma lasciare il proprio Paese non dovrebbe essere un obbligo, bensì una scelta.
È giusto tutto questo? È sbagliato dover rinunciare ai propri sogni per colpa di un governo che non sa come prendersi cura dei propri cittadini e che pensa esclusivamente all’arricchimento individuale. Oggi viviamo schiacciati da tasse, imposte e limitazioni di ogni genere. Oltre la metà di quello che il singolo individuo guadagna va nelle tasche dello Stato, così assistiamo ad un impoverimento progressivo e alla scomparsa del ceto medio: l’Italia si divide tra ricchi e poveri.
Il meccanismo si è inceppato: il nostro è un sistema che non funziona più e, nonostante tutti sembrino capirlo, nessuno fa qualcosa per modificare il corso degli eventi.
Il problema è che in Italia non è più come un tempo, quando la gente si univa per uno scopo comune, avendo i mezzi e le energie; oggi sembra vigere la legge della “passività”: tante lamentele, ma nessuna azione concreta. Vi sono manifestazioni di piazza, ma troppo inconsistenti per lasciare veramente un segno. La gente sceglie il silenzio perché ha paura delle conseguenze e questo accade nei confronti del nostro governo tanto quanto si verifica all’interno di molte istituzioni. Questo malessere lo viviamo anche nell’ambito universitario, dove la stragrande maggioranza degli studenti ha paura di parlare con i professori quando qualcosa non funziona.
Vedo i miei coetanei come una mandria di persone indecise, insicure; sono sempre i primi a criticare, ma non sono mai pronti a reagire. Ogni volta che all’interno del mio corso universitario sono sorti problemi e discussioni, sono risultata l’unica pronta ad andare a parlarne direttamente con il preside: non uno dei miei compagni che mi abbia mai accompagnato né spalleggiato. Io non mi ritrovo in questa realtà; trovo che non abbia senso arrabbiarsi per poi starsene con le mani in mano. Il problema è che i pochi che, come me, reagiscono, tendono ad essere emarginati: siamo quelli che rischiano di venir bocciati all’esame solo per aver chiesto che i nostri diritti venissero rispettati.
Viviamo immersi nella tecnologia, in un mondo in cui ci si sente nudi se privati, anche solo per poche ore, del proprio smartphone. Facebook, Twitter, Instagram, Flickr, un’infinità di social network in cui tutti esprimono la propria opinione, tutti si scagliano contro tutti senza costruire nulla di concreto. Pur vivendo in una realtà in cui siamo così costantemente interconnessi gli uni agli altri, ciascuno di noi è sempre più solo, isolato.
Il problema è che il singolo non fa la differenza, bisogna unirsi per cambiare questa situazione, e poiché è già da troppo tempo che le cose non fanno che peggiorare, il tempo in cui ci si limita a “sperare” in un futuro migliore è finito. Ora è il momento di “combattere” veramente per ciò che si vuole, per i valori in cui si crede: dobbiamo difendere i nostri diritti, e dobbiamo farlo noi giovani perché è del nostro futuro che si parla.

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Silvia Malacarne



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