Giorgio Galli: la democrazia ora è un guscio vuoto, il potere si esercita senza il controllo dei cittadini
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Giorgio Galli, già docente di Storia delle dottrine politiche presso l’Università degli Studi di Milano, è uno dei più conosciuti ed affermati politologi italiani. Oltre alle classiche indagini di scienza politica ha svolto apprezzatissime ricerche sui nessi tra avvenimenti, dottrine storico-politiche e quel grande coacervo di tradizioni e culture che la razionalità moderna aveva relegato nell’ambito dell’irrazionale. Questa duplice attenzione per la ricerca razionale e per l’occulto che spesso si accompagna alla pratica e alla teoria politica rende le riflessioni di Galli particolarmente stimolanti, originali ed interessanti.
Professore, cosa ha di particolare lo sguardo del politologo (rispetto a quello di altri specialisti come l’economista o il sociologo)?
Il politologo è una persona che studia razionalmente il comportamento dei sistemi politici cercando di comprenderne il funzionamento. Lo sguardo del politologo è per sua natura orientato a riconoscere il potere che si esercita attraverso la politica e a comprenderne i meccanismi.
Quale è la situazione attuale a livello globale letta dal suo punto di vista di politologo?
I tempi attuali sono caratterizzati da una forte crisi della democrazia rappresentativa occidentale che da tre decenni è tale indipendentemente dagli eventi attuali, dagli attentati dell’Isis e dagli sconvolgimenti geopolitici degli ultimi decenni e si manifesta come un costante declino della rappresentatività.
La crisi deriva dal fatto che le decisioni rilevanti a livello mondiale non sono più prese nei luoghi dove operano soggetti eletti e quindi controllabili attraverso processi democratici. Esse vengono invece prese all’interno di altre entità alle quali il potere di controllo dei cittadini non ha assolutamente accesso.
Queste entità sono di più tipi, come le grandi tecnocrazie, gli stati continentali, le imprese multinazionali. Gli stati continentali sono pochi, Stati Uniti, Cina, Russia, India, forse Brasile, ognuno caratterizzato da una propria tecnocrazia. Le multinazionali invece sono moltissime: nel mondo agiscono circa 60.000 multinazionali tascabili e circa 500 multinazionali importanti: sono soprattutto queste ultime le grandi protagoniste sulla scena del pianeta Terra accanto ai pochi stati continentali che hanno ormai surrogato negli equilibri geo-politici gli stati più piccoli e meno potenti.
Le azioni e le relazioni tra questi soggetti possono spiegare quello che sta succedendo nel mondo di oggi?
Il periodo attuale è caratterizzato da fortissime competizioni tra questi grandi attori istituzionali, tra stati e multinazionali, tra centri decisionali differenti; il califfato stesso, che storicamente sembrava sparito, è ricomparso come prodotto di un processo che coinvolge contemporaneamente imprese multinazionali, Stati nazionali e Stati continentali.
Non sembra esserci neppure una strategia dominante di lungo periodo almeno da parte delle multinazionali: uno loro caratteristica sembra piuttosto essere quella di agire in una prospettiva di breve periodo, due o tre anni al massimo, per massimizzare i profitti.
Proprio questa ristrettezza di vedute può spiegare decisioni che si sono rivelate fatali negli ultimi decenni come quelle di eliminare regimi in stati sovrani o quella di finanziare una parte per indirizzarla contro il nemico di un tempo senza considerare le conseguenze di lungo periodo. Ed è quello che è successo e sta succedendo nel teatro medio-orientale.
Piuttosto si pagano conseguenze che derivano da scelte tattiche e non strategiche che generano effetti drammatici nel medio e lungo periodo. Si tratta di scelte fatte da soggetti il cui obiettivo reale era massimizzare i risultati di breve periodo, come succede per la finanza e la borsa del capitalismo globalizzato. Questa tendenza spiega anche le retribuzioni inimmaginabili di manager e dirigenti che sono chiamati esclusivamente a massimizzare il profitto nel breve periodo alimentando un circuito vizioso assai difficile da controllare. Forse ai vertici delle grandi tecnostrutture si ragiona su prospettive di più lungo periodo, come sembrerebbero attestare le riflessioni sul XXI secolo americano o quelle sulla prevalenza futura della Cina, ma la tendenza a prendere pericolose decisioni di breve respiro sembra piuttosto consolidata.
Questa complessità viene troppo spesso semplificata arbitrariamente ed appare ad alcuni come un caos incontrollato e ad altri come il frutto di un calcolo. Lei che ne pensa?
Non c’è un governo ombra ci sono solo delle forti competizioni tra grandi attori che generano spesso effetti inattesi; ma niente complotti e niente misteri, anche se ci sono i servizi segreti e gli accadimenti locali e mondiali si collocano entro grandi tendenze generali come il risveglio dell’Islam. Vero è che le multinazionali e i grandi apparati tecnocratici sono guidati da elite auto selezionate come i feudatari del Medioevo, mentre in democrazia si dà per scontato che chi esercita il potere dovrebbe avere il consenso dei cittadini. Ma non è più così: a che serve il diritto di voto se le decisioni vengono prese da altri soggetti lontani? E che ruolo avrebbero i politici eletti in un clima di sfiducia e disinteresse sempre più diffuso, se non quello di perpetuare una casta attenta soprattutto a tutelare i propri interessi? Paradossalmente qualcuno, non molto tempo fa, ha teorizzato la necessità di esportare la democrazia facendo seguire alle parole i fatti con le conseguenze che ora sono sotto gli occhi di tutti…
È invece urgente creare qualcosa di nuovo, al di la della pur necessaria procedura di voto universale che coinvolge sempre meno persone, per ridare senso a quella che si chiama democrazia: la politica deve infatti dare senso e non solo costruire consenso.
Oggi, quali soluzioni sono percorribili per ridare forza alla democrazia rappresentativa?
Se la crisi della democrazia rappresentativa è il problema da essa si può uscire solo allargandone i confini, facendo in modo che ai meccanismi di auto-selezione dei soggetti che agiscono nei centri decisionali più importanti vengano sostituiti meccanismi di tipo elettivo fondati sulla rappresentanza. Se le decisioni davvero rilevanti per tutti vengono prese nei consigli di amministrazione delle multinazionali e nei direttivi delle grandi tecnocrazie allora è anche li che dovrebbero essere messi i soggetti eletti dai cittadini. Ne consegue la possibilità e forse l’esigenza di votare ed eleggere i vertici delle 500 multinazionali più importanti ed influenti estendendo i principi della democrazia rappresentativa alle multinazionali. Se la democrazia dovesse continuare ad esprimersi semplicemente votando soggetti che non possono decidere, che non prendono le grandi decisioni, è la democrazia rappresentativa stessa che perde di significato: se essa non consente di esercitare il controllo laddove si esercita il potere essa rischia seriamente di diventare inutile.
La situazione appare piuttosto complessa: spostiamoci avanti di qualche anno, nel 2020: cosa possiamo immaginare?
E’ sempre difficile fare proiezioni nel futuro; tuttavia si può immaginare che la competizione tra stati continentali, o entità semi-statuali come l’Isis, assumerà le caratteristiche di una guerra asimmetrica che si combatte in vari modi: attraverso la finanza, con la globalizzazione e con il terrorismo, con gli attentati e la moneta virtuale. E’ una situazione ben espressa nel libro di due autori cinesi tradotto in italiano con il titolo di Guerra senza limiti e pubblicato dalla Libera Editrice Goriziana (gli autori sono gli allora colonnelli Quiao Liang e Wang Xiangsui che prendono spunto dal celeberrimo testo L’Arte della guerra di Sun Tzu).
Con ogni probabilità questa competizione sarà accompagnata anche da una scarsa crescita economica.
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Bruno Vigilio Turra
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