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Il giardino è il luogo del possibile e ogni giardino ha una storia da raccontare. Ecco perché l’immagine di una donna musulmana che annaffia fiori coltivati dentro oggetti che sembrano scheletri di bombe, mi ha molto colpito. L’ho trovata in rete, qualche giorno fa, ma la notizia è dell’anno scorso e riguarda un giardino piantato nel villaggio di Bilin, nella zona del West Bank in Israele, come gesto di protesta pacifica e come ricordo delle vittime provocate da quelle stesse granate a gas che, una volta esaurite, sono state usate come vasi. È un gran bel paradosso pensare di fare un giardino, luogo recintato per eccellenza, per protestare contro la costruzione dell’ennesimo muro di divisione fra israeliani e palestinesi, ma va benissimo, indipendentemente dal finale di questa storia. Ovunque, l’idea che qualcuno si opponga a qualcosa di mostruoso con un gesto ironico, piccolo e immensamente simbolico, è sempre commovente e pieno di speranza, se tutto questo accade nei luoghi tragici del Medio Oriente, i pensieri corrono e vanno a mille. Queste terre aride e pietrose sono la culla del nostro giardino, qui ogni pianta rubata alla sabbia e ai sassi è una preghiera. Qui nasce l’idea del giardino come luogo perfetto per la vita, chiamato appunto paradiso. Ma forse il paradiso non ha gusto se non è strappato al deserto, è così diventa paradiso in terra, l’oasi in mezzo al nulla che trasforma il regalo divino nel principio generatore di un’agricoltura estrema e sapiente che ha reso spettacolari le colture dei paesi aridi.
Forse è stato questo pensiero che ha suggerito alla mia amica Olga di vedere il bellissimo film “Il giardino dei limoni”. Il riferimento è preso un po’ alla larga, ma in effetti una donna che bagna delle piantine in un giardino fatto con i residui di un conflitto, riporta ad altre storie vissute in questa guerra come quella raccontata con grande intensità in questo film. La pellicola, del 2008, opera del regista Eran Rikli, racconta la storia di Salma, una vedova palestinese, la cui unica ricchezza e fonte di sostentamento è un limoneto. È una donna sola, la famiglia lontana, che vive con grande dignità in una casa poco più solida di una baracca, coltivando limoni nel frutteto piantato dal padre. Per sua sfortuna il ministro della difesa israeliano si insedia nella villa confinante e per motivi di sicurezza – le chiome degli alberi potrebbero nascondere eventuali attacchi dei terroristi – dà ordine di eliminare il limoneto. La donna si oppone e attraverso l’aiuto di un giovane avvocato fa causa al ministro. Questa è la storia, ma nel film c’è molto di più. Ad una prima lettura, c’è l’incontro di due solitudini, quello della vedova e della moglie del ministro. Le due donne non si parlano mai, ma si capiscono attraverso gli sguardi, sguardi che vorrebbero andare oltre la Storia. Al centro di tutto le piante di limoni, un frutteto che diventa notizia, e alla violenza della distruzione fisica si aggiunge la violenza dell’invasione dei mezzi di comunicazione nella vita privata della protagonista e dello sfruttamento di chi userà la “notizia” per fare carriera. Ma cos’hanno di speciale questi limoni? le piante ricrescono, è solo questione di tempo, ma un frutteto di limoni cresciuto nel deserto è un concentrato di simboli, è comunque un paradiso, e Salma viene scacciata dal suo paradiso senza aver peccato.

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Giovanna Mattioli

È un architetto ferrarese che ama i giardini in tutte le loro forme e materiali: li progetta, li racconta, li insegna, e soprattutto, ne coltiva uno da vent’anni. Coltiva anche altre passioni: la sua famiglia, la cucina, i gatti, l’origami e tutto quello che si può fare con la carta. Da un anno condivide, con Chiara Sgarbi e Roberto Manuzzi, l’avventurosa fondazione dell’associazione culturale “Rose Sélavy”.


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