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A volte basta un’immagine, un fotogramma colto al volo nel passaggio televisivo di un provino, per mettere in movimento una catena di ricordi e belle sensazioni. Il fotogramma in questione è tratto da un film di cui si parla da settimane: “Il racconto dei racconti” di Matteo Garrone. La scena: Salma Hayek, vestita da regina barocca, insegue un ragazzino dai capelli biondissimi all’interno di un labirinto di pietra. Eccolo il flash, ecco la schioppettata, perché chi ha visto quel labirinto non lo può scordare, è il labirinto di pietra del giardino del castello di Donnafugata. Per un caso di omonimia, questo luogo non c’entra né con il romanzo di Tomasi di Lampedusa, né con il film di Visconti, eppure, sono in tanti a scendere a Donnafugata per cercare un Gattopardo che non c’è, dimenticando invece, che questo castello lo abbiamo già visto filmato in “Kaos” dei fratelli Taviani, in “L’uomo delle stelle” di Giuseppe Tornatore e persino in alcuni episodi del commissario Montalbano. Del resto, se dopo cinquant’anni dal film di De Sica, sono ancora tanti quelli che cercano il giardino dei Finzi-Contini nel parco Massari di Ferrara, possiamo capire quanto sia forte la persistenza di una location cinematografica nell’immaginario collettivo.
Il castello di Donnafugata, quello che si trova in provincia di Ragusa, è un luogo magico. Sembra effettivamente uscito da una favola, e nonostante non ci sia nessuna cura nel tenere in ordine i cartelli dei ristoranti e le girelle con le cartoline, l’ingresso a questo palazzo è maestoso. Ma la vera sorpresa non è l’architettura, che potremmo catalogare come un misto fritto di stili assemblati, con grazia commovente, e sotto un sole imperturbabile, che lo fa splendere nel paesaggio di olivi, carrubi e sassi senza cadere nel ridicolo, dunque, la vera sorpresa è il giardino, un luogo che ha conosciuto le ferite dell’abbandono e la fortuna di un restauro intelligente, curato dagli architetti Biagio Guccione e Giacometto Nicastro (2004-2006).
Perché questo luogo è così speciale? Perché nei suoi otto ettari di sviluppo, troviamo una collezione di libere interpretazioni di alcuni capitoli della storia recente del giardino, che lo rendono più simile ad un parco anglosassone aperto al paesaggio, piuttosto che a un’oasi chiusa dentro un recinto, di più consolidata tradizione mediterranea.
Uno di questi oggetti è il labirinto: trappola senza uscita o percorso iniziatico, qui si entra per perdersi e ritrovarsi, anche solo per gioco. Di solito i labirinti nei giardini sono fatti con muri di piante, anche i più famosi labirinti cinematografici sono vegetali: in “Shining” è l’immagine della perdita della ragione del protagonista, ma anche il luogo dove il ragazzino troverà la salvezza; in “Orlando” la protagonista farà un salto temporale entrando in un labirinto; anche quello magico che abbiamo visto in “Harry Potter e il calice di fuoco” è verde, esattamente come quello del giardino del palazzo di Hampton Court in Inghilterra, che ha ispirato il barone Corrado Arezzo de Spuches (1824-1895) che lo ha disegnato su uno dei suoi taccuini di viaggio per rifarlo poi, nella sua dimora siciliana. Il Barone, proprietario di Donnafugata, persona colta e grande viaggiatore, era in un certo senso un collezionista di luoghi. Nel suo giardino troviamo per esempio, una ricostruzione, adattata al clima siciliano, del cenotafio di Rousseau a Ermenonville, nel nord della Francia, dove il cerchio di pioppi, amanti dell’umido, sono stati sostituiti da cipressi. Se dunque la geometria di carpini di Hampton Court avrebbe avuto vita breve nel ragusano, De Spuches la trasforma in un luogo metafisico e cocente utilizzando la pietra dei muri a secco. Un gesto talmente moderno che potremmo definirlo concettuale, ma siamo sicuri che sia andata così? forse è stato un incantesimo, una magia che ha trasformato le piante in sassi, come in una metamorfosi mitologica, in una fiaba senza tempo … un racconto dei racconti.

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Giovanna Mattioli

È un architetto ferrarese che ama i giardini in tutte le loro forme e materiali: li progetta, li racconta, li insegna, e soprattutto, ne coltiva uno da vent’anni. Coltiva anche altre passioni: la sua famiglia, la cucina, i gatti, l’origami e tutto quello che si può fare con la carta. Da un anno condivide, con Chiara Sgarbi e Roberto Manuzzi, l’avventurosa fondazione dell’associazione culturale “Rose Sélavy”.


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