Occorre essere cauti quando si tratta di streghe. Attenti, circospetti, parlare a bassa voce per non disturbare ed evocare presenze ancora più temibili. Così sostiene Gianola che di streghe ne sa qualcosa. Ciò che sconcerta, in quella donna, è l’imponderabile, l’alone di ‘diversità’ che la circonda come un’aura, senza avere la possibilità di dare un nome a tutto questo. Parlare di mistero sembra eccessivo ma sicuramente dev’essere qualcosa di molto simile. Non è mai stata una donna normale, afferma l’infermiera della Casa di Riposo, e anche adesso non lo è. Non si mescola agli altri ospiti perché non è abituata a farlo e nemmeno lo desidera e gli altri, dal canto loro, la tengono a distanza perché sanno, sanno tutto e la temono. E’ una figura schiva, per niente ombrosa, semplicemente imperscrutabile. E’ magrissima e piena di rughe profonde, sembra quasi un tronco secolare che non fiorisce più da molti, moltissimi anni ma conserva il suo posto in questo mondo, per mezzo di radici così profonde da sfidare chiunque volesse rimuoverlo. Sorriso o sogghigno sembrano la stessa cosa e, in qualunque dei casi, nessuno sa mai se rida o digrigni quelle due mascelle ben piantate. Mastica sempre: tabacco, mollica di pane, buccia d’arancia, radice di liquirizia, strani semi che conserva in un sacchetto di tessuto a fiori e molto altro su cui nessuno ha mai indagato. Mastica anche parole, discorsi senza fine che formano una cantilena cadenzata, quasi musica; le piace parlare, sciorinare quelle frasi al vento o ad un interlocutore che l’ascolti incuriosito, di solito uno dei visitatori o qualche operatore gentile.
Solo l’austera e signorile Mina parla di Gianola senza imbarazzo, offrendo racconti e spaccati di vita che riguardano la donna, ritenendo di essere ‘superiore’ ad ogni vicissitudine e quindi giudice imparziale e narratore fedele alla verità dei fatti.
Gianola, il cui vero nome è Genoveffa, era stata allevata da un’anziana zia che l’aveva accudita dopo la presunta morte dei genitori in circostanze poco note alla popolazione del paese. Erano gli inizi degli anno ‘20 e si diceva che fossero emigrati da qualche parte ma non si sapeva di preciso. Non erano più tornati e la cosa finì là. La bambina si rivelò subito una strana creatura: a scuola parlava senza nesso quando tutti ascoltavano la lezione e ammutoliva quando era interpellata, barricandosi dietro quel silenzio, testarda come un mulo. Ciò bastava per renderla oggetto di sospetti, critiche, grandi sgridate, bacchettate sulle mani e ogni tipo di scherzo da parte dei compagni: se non era la salamandra in tasca, era il suo nome sulla lavagna, associato ad un insulto alla maestra, al parroco o al podestà. E questo, in tempi di Fascismo, equivaleva all’etichetta di ‘asociale, nemico della Patria’ seguito dall’ostracismo dell’intera comunità. Un brutto soggetto da correggere, dunque. Impacciata e goffa durante le manifestazioni e le parate in onore del Duce, si trasformava in un velocissimo ed agile capriolo quando andava per boschi, saltando di qua e di là lungo i torrenti, libera e padrona del proprio tempo e dei propri movimenti. Clavette e cerchi, nastri e corde, regole e schemi, marce e squadre non erano per lei, creatura abituata a ben ad altri spazi.
Quando morì la zia, santa donna, lasciandole la casa ed una piccola rendita su cui contare, Gianola era ormai una ragazza di 18 anni, sempre più immersa in un mondo tutto suo, così diverso da quello di paese da non sfuggire all’occhio dei più critici. La sua casa, vecchia decrepita ma ancora solida, era sommersa da libri, quaderni con appunti fitti, vasetti ed ampolle, ciotole e contenitori di ogni tipo, una pressa, un alambicco casereccio ma ancora funzionante, pentole e pentolini che facevano il loro dovere giorno e notte sul fuoco in cucina, dove la luce non veniva mai accesa perché bastava quella delle numerose candele e lampade a carburo che illuminavano i segni di una ininterrotta e fervida attività. Quella casa era la prima di una lunga fila di abitazioni attaccate l’una all’altra che si affacciavano sulla ‘rivetta’, un acciottolato in salita che conduceva alla bellissima chiesa gotica del 1100, eretta dai bergknappen, i lavoratori delle miniere di argento, ormai abbandonate, di quei posti. Strana vicinanza, quella, tra la tana della presunta fattucchiera e la dimora di Dio! Dalle finestre uscivano e si diffondevano tutt’intorno odori di ogni tipo, profumi piacevoli o puzze maleodoranti ed acri, a seconda degli ingredienti, i dosaggi, le preparazioni, le combinazioni. La gente sparlava ma ci aveva già fatto il callo. Non c’era giorno che l’aria fosse normale e nei giorni di bassa pressione era ancora peggio.
Poi ci fu quella maledetta notte in cui scoppiò un incendio, la cui origine era un incauto deposito di segatura in una soffitta e una scintilla partita da una stufa. Fu il finimondo. Gente che urlava e scappava ovunque si ritenesse al sicuro dal fuoco salvando ciò che era possibile, bambini terrorizzati in braccio alle madri, anziani tratti in salvo e sollevati a braccia, una catena umana che si passava freneticamente secchi d’acqua nel tentativo di acquietare le fiamme. Un bagliore infernale illuminava la scena. Qualcuno faceva la conta e chiamava desolatamente all’appello gli abitanti delle case sulla ‘rivetta’. Mancavano due donne, madre e figlia, che nessuno aveva visto nel trambusto e che trovarono più tardi carbonizzate sul selciato della loro cucina. Mancava anche Gianola e per un attimo tutti tacquero, meravigliandosi che la donna, perennemente sveglia la notte, non si fosse accorta di nulla. Quando la videro uscire dal suo portone incandescente, tra una trave e l’altra che cadeva crepitando, dritta come un fuso, composta e imperturbabile, con gli abiti puliti e il passo tranquillo, non riuscirono a contenere la tensione che si era accumulata e il grido collettivo di “strega, strega!!!” coprì addirittura il rumore del fuoco che divampava sempre di più. Molti, quella notte, confermarono definitivamente che la donna aveva qualcosa di demoniaco, se era uscita intatta da quella devastazione. Anche coloro che le avevano sempre concesso delle pietose e cristiane attenuanti, se ne guardarono bene dal quel momento, di usare per lei parole di comprensione.
La ‘rivetta’ tornò in breve alla sua immagine di prima e la vita continuò come se quella parentesi non avesse inciso.
I sospetti, le maldicenze, le calunnie e le accuse serpeggiavano di balcone in balcone lasciando una scia schifosa e viscida dietro di sé, come fosse passata una gigantesca lumaca velenosa.
In un paese di dimensioni modeste, poi, c’è sempre qualche anima che giura di avere visto cose innominabili come una cucina che sembra l’antro della Sibilla, terrificanti animali imbalsamati dappertutto, soprattutto lupi, gatti e vipere conservate in formaldeide, strumenti sconosciuti, vapori strani, simboli e segni dall’aspetto malefico appesi alle preti e perfino una vecchia stampa ingiallita con una mandragora e un basilisco. Una cosa era vera e certa: il tavolone era sommerso da preparati di ogni tipo, unguenti, tisane, cataplasmi, infusi, decotti, olii, sciroppi, pozioni di ogni genere. Pioggia, vento, sole e tempesta, Gianola usciva la mattina presto e vagava nei boschi alla ricerca di erbe officinali, cortecce, muschi, foglie, bacche, fiori e funghi che selezionava con cura e riponeva in ceste e canestri per portarseli gelosamente a casa e sottoporli a ogni sorta di trattamento. Qualche ragazzino l’aveva anche seguita e spiata, pronto a riferire che quella donna parlava con qualcuno di invisibile, recitava formule complicate e a volte i suoi piedi non toccavano neanche terra. Quando i paesani la incrociavano sul loro cammino, si giravano dall’altra parte, facevano strani scongiuri con le mani e le donne toccavano il rosario in tasca; qualcuno la salutava sbrigativamente più per paura che per pietà e qualcun altro, di solito quelli più rozzi, insensibili e prepotenti, aggiungeva tra i denti parolacce, insulti se non bestemmie. Gianola tirava dritto come se tutto fosse trasparente, incurante e libera da ogni obbligo.
Si diceva che gettasse il malocchio, facesse cadere in stato catatonico le persone, segnasse i neonati alla nascita con voglie e macchie strane, determinasse avvenimenti dominando il fuoco e l’acqua, avesse influenza anche sulle malattie del bestiame causando afta epizotica e altre calamità. Una donna, insomma, che coltivava un legame con le forze oscure e fungeva da tramite con tutto ciò che alle persone comuni non era dato a sapere.
Di notte, quando le tenebre garantivano l’invisibilità, c’era un via vai di ombre che entravano ed uscivano da quella casa, in silenzio, frettolosamente come fosse un popolo di inafferrabili fantasmi. Erano donne che in tutta segretezza si rivolgevano a Gianola per rimedi e preparati contro le costipazioni polmonari, le febbri, i geloni, i mal di denti, le vesciche e gli eczemi, il ‘mal di budelle’, i pidocchi e i vermi intestinali. Chiedevano qualcosa per facilitare e produrre le doglie o magari anche per non rimanere incinte da quei mariti poco sensibili o gli amanti incauti. Qualcuna acquistava amuleti e portafortuna, altre saponi delicati ed essenze fragranti dal profumo di mughetto, rosa e ciclamino. Le più misteriose, quelle che raggiungevano la casa ad ore impossibili, erano le più impazienti di scagliare contro i nemici fatture di ogni genere esortando la ‘strega’ ad inventarne sempre di nuove.
L’attività continuò incessante anche durante gli anni della Guerra, tanto, tra bombardamenti, rappresaglie, sfollamenti e fame, a quella strana creatura nessuno faceva più caso. Si sa che qualche partigiano si era nascosto in casa sua per brevi periodi e che alcuni tedeschi in ritirata, disarmati e allo stremo, avevano sottratto dalla sua dispensa patate, uova, miele, marmellate di more e mirtilli e quel po’ d’altro che era commestibile, dandole in cambio dei sigari che la donna aveva messo in una scatola di latta e mai più toccato, quasi fossero una reliquia.
La guerra era finita, la gente tornava faticosamente alla vita di prima anche se non sarebbe stata mai più la stessa cosa. Una guerra così non lascia nulla di indenne. Le madri aspettavano figli e mariti dal fronte che magari non sarebbero tornati, la paura serpeggiava e sarebbe rimasta ancora per molto, le botteghe aprivano con gli scaffali semivuoti e i campi versavano in un desolante stato di abbandono. Le tracce della guerra erano dovunque, impresse nella psiche e visibili dappertutto.
La ricostruzione aveva dato nuovi impulsi e speranze, ci si rimboccava le maniche, si recuperava quello che c’era da recuperare e si creava il nuovo dal nulla laddove era rimasto il vuoto. Fatica, sudore, speranza.
Al paese avevano timidamente aperto tre nuovi negozietti: una merceria che vendeva anche tende, pigiami e stoffa a metraggio, un alimentari dove si trovavano anche articoli di ferramenta, granaglie e qualche bicicletta recuperata chissà dove ed infine un piccolo posto dove vendevano libri usati, quaderni e materiale per scrivere d’ogni tipo, anche la carta a carbone per le copie dattiloscritte.
Era arrivato anche il dottore, un dottorino giovane giovane che aveva preso ambulatorio proprio in centro e lo aveva arredato con una bella scrivania, due poltroncine comode e attrezzature mai viste.
Quell’arrivo segnò il tramonto della ‘strega’, la fine vera e propria di un’epoca di oscurantismo fuori dal tempo che aveva regnato in quel paese.
La gente faceva visita regolarmente al giovane medico che diventò in breve tempo l’unico depositario di tutti i segreti e la totale fiducia delle famiglie, curando, consigliando, dispensando istruzioni, rassicurando.
La scienza aveva trionfato sulla superstizione. Una piccola rivoluzione.
Terminarono i giudizi lapidari, lo sparlare e il maledire Gianola, anche se una certa inquietudine nel nominarla non sparì di fatto mai. Qualche anziano continuò comunque a raccontare di lei ai nipoti nella speranza di impressionarli ed i nipoti ascoltavano con curiosità e un sorrisino scettico, compatendo il vecchio parente.
Anche la fiera e indipendente signora Mina, ospite anche lei presso la Casa di Riposo, qualche volta ricorda ad alta voce e senza timore i trascorsi di Gianola e mentre evoca fatti, episodi e vicende, la guarda borbottare lontana dagli altri, sempre dritta come un’asta, con i capelli ormai instoppiti e gli occhietti sempre vivi e acuti ad osservare gli altri.
Mina aggiunge sempre, in nome della sua autoproclamata rettitudine e del suo senso di giustizia, che Gianola ha fatto del bene a tutti, guarendo, consolando, orientando saggiamente, ascoltando miserie e dolori di chi di giorno la mandava al rogo e la sera bussava alla sua porta. Nessuna ‘scusa’ per Gianola; se ne andrà, quando è la sua ora, senza aver avuto una sola parola di conforto da quelli che hanno vissuto con lei gomito a gomito una lunga vita in quel paese.

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Liliana Cerqueni
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