Gianni Berengo Gardin: il mio primo libro l’ho fatto a Ferrara
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“La fotografia è documentazione del reale e deve essere verità”. Un’idea chiara, classica, che appartiene alla generazione di un fotografo nato nel 1930, ma che ha ancora una limpidezza schietta quella che Gianni Berengo Gardin esprime con un’energia indomita sul palco allestito nel cortile di Grisù, l’ex caserma dei vigili del fuoco dentro le mura di Ferrara. Berengo Gardin è stato ospite del festival di fotografia “Riaperture”, organizzato a Ferrara per la terza edizione per i fine settimana dal 29 marzo al 7 aprile 2019.
“Il mio mito – racconta Berengo Gardin sollecitato dalle domande della giornalista Daniela Modonesi – era Ugo Mulas, e quando mi sono trasferito a Milano frequentavo il bar Jamaica per conoscere lui e gli altri fotografi. Una volta Mulas mi ha invitato nel suo studio e mentre mi mostrava le sue foto non facevo che dire ‘che belle’, ‘questa è bellissima’, ‘guarda questa che bella che è’. Alla terza volta che dico così, lui mi avverte ‘se dici ancora che bella, ti caccio via’. ‘Cosa devo dire allora?’, gli ho chiesto. E lui: ‘Che è buona. Una foto bella può essere ben composta, ma non dice niente. Una foto buona può essere anche tecnicamente imperfetta, può essere un po’ sfuocata , ma ti racconta qualcosa e a volte anche molto. Per lavorare e per vivere, io ho dovuto fare anche una quantità di belle fotografie. Anzi, all’inizio ho fatto di tutto, la puttana nel senso più completo: per il giornale fascista ‘Il Borghese’, per ‘Novella 2000’ con i bambini belli sulle spiagge italiane, per ‘Panorama’ andando a fotografare tre ristoranti al giorno, per i matrimoni. Dopo due anni, però, sono riuscito a incanalare la fotografia dove volevo io”.
Diretto e impietoso anche verso se stesso Berengo Gardin dichiara: “Di libri ne ho fatti 258 e tra questi, di buoni, ce ne sono una quarantina: sono quelli che illustrano anche alle generazioni future come vivevamo nel 2000. Una foto buona è quella che racconta il nostro mondo, la nostra vita”.
Legame con Ferrara. “A Ferrara sono particolarmente legato, perché è qui che è nato il primo dei 258 libri fotografici. Ero ancora un foto-amatore e Bruno Zevi che insegnava Architettura a Venezia mi ha chiesto di fare le foto delle architetture realizzate a Ferrara da Biagio Rossetti (‘Biagio Rossetti, un architetto ferrarese’, Einaudi, Torino, 1960, ndr). Prima avevo già preparato una serie di immagini scattate a Venezia per un libro che mi avevano rifiutato tutti gli otto editori italiani a cui lo avevo proposto. Perché era una Venezia poco veneziana, sotto la pioggia, avvolta nella bruma e con scorci poco turistici. Piacque a Mermood, un editore svizzero. Uscì nel giro di ventitré giorni (1965, Clairefontaine di Losanna, ndr), ed era un miracolo… erano gli anni Sessanta e ancora non si usava il computer. I testi erano scritti da Giorgio Bassani e Mario Soldati e anche per questo, quel libro intitolato ‘Venise des saisons’, resta forse quello a cui sono più legato. L’amicizia con Giorgio Bassani, poi, mi ha portato ancora una volta qui, per fare un servizio sul cimitero ebraico”.
Fotoamatore o fotografo professionista? “Io ho iniziato a fotografare per passione. Fare il fotoamatore è uno step importantissimo, perché impari tutte le regole fondamentali. All’epoca era anche un po’ più complicato, non c’erano tante scuole o corsi, e neanche libri. C’era solo il manuale Hoepli sulla tecnica e il libro di William Klein con le foto di New York. Noi ci siamo fatti le ossa su questi libri, oltre che guardando la rivista ‘Life’. Io però ho avuto una fortuna in più, rispetto ai colleghi della mia generazione, perché avevo uno zio in America, molto amico del fratello del fotografo Capa. E lui mi consigliò e mi fece avere i libri dei grandi fotografi americani, che qui ancora non erano arrivati. Questo è stato un grande vantaggio per me, perché vedere quelle cose mi ha ispirato e indirizzato nel modo di scattare”.
Libri fotografici anziché scatti per i giornali. “Io ho iniziato a lavorare per un giornale tra il 1950 e il ’54, che era ‘Il Borghese’ di Longanesi. Poi mi sono stancato di lavorare per una redazione di tendenza fascista e mi hanno suggerito di andare a ‘Il Mondo’ di Pannunzio, che era diverso dagli altri, metteva foto a piena pagina quando ancora non lo faceva nessuno. Non prendevo molto, però, e allora ho tentato di lavorare per altri giornali, ma non sono riuscito. Così mi sono concentrato a fare lavori da proporre per l’editoria, anche se non prendi molti soldi neanche lì. Ma facevo servizi che mi piaceva fare e mi interessavano. Perciò ho preferito continuare a fare quelle cose, anche se guadagnavo relativamente poco”.
L’impegno politico. “Sono diventato (e sono) comunista non perché avessi letto i testi sacri del comunismo, ma perché frequentavo gli opera dell’Olivetti e soprattutto dell’Alfa Romeo, che all’epoca erano il nocciolo duro del partito. Ancora oggi questo mi rende un nostalgico del vecchio Pci e di quegli uomini straordinari che avevano fatto la Resistenza”.
“Grazie a Carla Cerati, che mi ha chiesto di accompagnarla a Gorizia dove doveva fotografare l’ospedale psichiatrico per Franco Basaglia, è nato ‘Morire di classe’ (Einaudi, Torino, 1969, ndr), il libro con le immagini che documentano non la malattia, ma le condizioni terribili in cui venivano tenuti i malati. Si usavano le camicie di forza (anche se erano già state vietate), le persone venivano legate ai letti, i capelli rapati a zero in modo umiliante e i parenti, in manicomio, non ci andavano nemmeno a trovarli, perché questi legami erano sentiti come una vergogna. Basaglia ha fatto una grande rivoluzione, ha fatto vestire i malati in borghese e ha fatto abbattere da loro stessi le recinzioni che li rinchiudevano”.
Colore o bianco & nero. “Il colore distrae sia il fotografo sia lo spettatore. Fotografare a colori va bene se devi fare un catalogo di garofani. Ma, per il mio genere di fotografia, il bianco e nero è più efficace. C’è anche da tener conto che io sono nato con il cinema in bianco e nero, la tv in bianco e nero e che i miei grandi maestri fotografavano in bianco e nero. Willy Ronis è stato il mio primo maestro, a Parigi, non Cartier Bresson a cui molti mi paragonano. E io mi sento vicino a quello che era lui, un fotografo vero, non un artista. Nel ’55 ho litigato con Robert Doisneau perché faceva foto false. Dentro le immagini ci sono tutti amici o parenti suoi, sono costruite. Per me la fotografia deve essere verità”.
Digitale o analogico. “Il digitale è una truffa legale. Spendi 5mila euro se non di più per una macchina che, dopo otto anni al massimo, è da buttare. Io ho una Leica del 1955, che è tutta meccanica e va ancora come il primo giorno. In più, quando si usano le tecnologie elettroniche, bisogna tenere conto che i mezzi di lettura cambiano. Già i nuovi pc non leggono più i cd. Gli archivi digitali rischiano quindi di andare perduti. Il milione e 200 scatti che ho io su pellicola, invece, sono archiviati e – dai più recenti fino a quelli di 68 anni fa – si possono stampare anche oggi. Gli assistenti che ho avuto sono arrivati tutti che avevano il digitale e se ne sono andati via che avevano anche la pellicola. La pellicola è più plastica, calda. Il digitale resta luminoso anche a mezzanotte, è freddo, metallico. Ha solo due vantaggi: che la foto la puoi mandare a New York dopo due secondi che l’hai fatta e che puoi cambiare la sensibilità”.
Mestiere fotografo. “Oggi è ancora più difficile fare il fotografo di mestiere. Perché, le foto, le fanno tutti e magari le regalano per la semplice soddisfazione di vedersele pubblicate”. Che dire ai giovani che si apprestano a fare questo mestiere? “Bisogna studiare, guardare gli altri fotografi, leggere. Ma il fatto è che con le foto di reportage, che sono l’anima vera del lavoro, non si vive più. Si vive con le foto di moda, con la pubblicità. Consiglio quindi di aprire una drogheria o una parafarmacia e poi di andare a fare le fotografie il sabato e la domenica”.
Foto-servizio per Ferraraitalia di Luca Pasqualini
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Giorgia Mazzotti
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