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Ferrara film corto festival

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Ormai in Italia capita sempre più spesso che le decisioni delle corti di giustizia internazionali riaprano fragorosamente polemiche e dibattiti su questioni in apparenza dimenticate; intendiamoci, non perché su di esse sia stata fatta chiarezza e resa giustizia, ma semplicemente perché il tempo sopisce ogni cosa e chi allora sosteneva le proprie buone ragioni o non c’è più oppure, semplicemente, si è stancato di essere preso in giro. Da noi l’indignazione, a torto o a ragione, è ormai endemica, ma brucia le proprie motivazioni con grande velocità e deve perciò essere alimentata quotidianamente con nuovo materiale: ogni giorno ha il suo scandalo e quelli passati non fanno indignare più nessuno. Merito quindi vada alla Corte europea dei diritti dell’uomo, che non va confusa con la Corte europea di giustizia, che ha ribadito dall’alto della sua autorevolezza che nel 2001 durante l’assalto alla Diaz e, per ovvia estensione, nel carcere di Bolzaneto venne praticata su larga scala la tortura, anche se i responsabili di quegli eventi sono rimasti impuniti, soprattutto a causa delle tuttora perduranti carenze legislative italiane (reato di tortura).
La polemica è subito infuriata sulle carriere di coloro che allora erano i massimi responsabili dell’ordine pubblico e di Giovanni De Gennaro in particolare, che da capo della polizia, passando per incarichi ministeriali e la responsabilità dei servizi segreti, occupa ora la poltrona di presidente di Finmeccanica, dopo esserne stato fino a pochi mesi orsono anche amministratore delegato, vale a dire della principale azienda italiana che opera nel settore della difesa e che è controllata dallo Stato. Purtroppo molti degli interventi che sono comparsi sui media erano animati dall’intento di gettare la responsabilità di quelle promozioni, nei fatti abbondantemente trasversale, sulle spalle di questo o di quello; raggiungendo alcune vette di comicità involontaria davvero notevoli, come capita quasi sempre quando si vuole giudicare il presente senza nulla dire del passato di cui è figlio.
In realtà quello che è successo nell’ormai lontano 2001 a Genova è stato per tanti chiaro fin dall’inizio: alla Diaz e a Bolzaneto, contrariamente alla voluta insipienza nella gestione dell’ordine pubblico nelle strade della città durante le manifestazioni dei giorni precedenti, è andata in scena una geometrica e premeditata dimostrazione di potenza da parte di uno Stato determinato a stroncare con la forza un movimento pacifista ed anticapitalista che stava crescendo troppo e che, contrariamente al solito, riusciva ad aggregare forze e movimenti anche al di fuori della cosiddetta “area antagonista”.
Per comprendere l’atteggiamento vagamente ambiguo di molti, emerso allora e continuato poi, nei confronti di quei fatti, sarebbe comunque utile riandare con la memoria a quel periodo e rileggere le posizioni dei singoli partiti ed esponenti politici rispetto al movimento pacifista che manifestava contro il G8. Ricordando ad esempio la profonda frattura che si era determinata a sinistra fra chi aveva sostenuto le scelte interventiste del governo D’Alema in Serbia a fianco della Nato e chi invece era stato fermamente contrario. Oppure le paure di contagio nel nostro Paese della crisi della ex Iugoslavia, in anni in cui la Lega disegnava l’Italia troncata sotto Firenze. E poi il timore da parte di molti nella sinistra tradizionale che quei movimenti si trasformassero, dopo il fallimento dell’Ulivo e della bicamerale, nonché i tentennamenti sul conflitto di interessi e nel pieno di una crisi politica profonda, nella vera opposizione ad un berlusconismo allora comunque maggioritario nel Paese. Che non vuol dire naturalmente che ci fu esplicita acquiescenza o addirittura gratitudine nei confronti delle squadracce finiane: è un fatto, però, che la carriera di De Gennaro e di altri protagonisti di quella notte non ha trovato opposizioni rilevanti da parte di quello che per molto tempo ha continuato ad essere il gruppo dirigente del principale partito di sinistra italiano.
Non era ancora del tutto sopita la polemica che sono comparse su Facebook le dichiarazioni, ognuno metta gli aggettivi che preferisce, dell’agente Tortosa, che rivendicavano l’orgoglio di aver partecipato alla mattanza, nel contesto di una visione del mondo degna dei peggiori film di propaganda degli anni ’50, con poliziotti ‘buoni’, violenti loro malgrado, attaccati nelle piazze da criminali e facinorosi di ogni sorta e ciononostante criticati da una massa di borghesucci benpensanti e ingrati, e che, oltre a ‘farsi il mazzo’ nell’indifferenza generale, sono alla prima occasione regolarmente scaricati anche dalla politica. L’’ingenuità’, volendo anche qui usare un eufemismo, di queste dichiarazioni consente però di recuperare un altro pezzettino di quel passato: quando la destra tornata da poco al governo non solo non fece nulla perché si accertassero le responsabilità dei corpi dello Stato coinvolti, ma elogiò pubblicamente il comportamento di responsabili ed agenti, favorendo l’insorgere in chi vi prese parte di un diffuso senso di orgoglio. Al punto che vennero addirittura stampate magliette, che si diffusero in ampi settori delle forze dell’ordine, che inneggiavano ai protagonisti di quei fatti. Una strategia a tutti gli effetti tesa a riconquistare alla destra parti importanti delle forze dell’ordine, che nei due decenni precedenti attraverso un ampio processo di sindacalizzazione avevano iniziato a perdere la loro antica natura di “corpi separati” dello Stato.
E quindi? Si chiederanno senza dubbio i pochi che avranno avuto la pazienza di arrivare sin qui. Cosa ci insegna questa ennesima triste e un po’ surreale incompiuta? Nulla che già non sapessimo, in realtà. A parte la piccola consolazione di avere, forse, a breve anche noi una legge contro la tortura, certamente perfettibile e criticabile, ma comunque, come si dice, “meglio di niente”, rimane la sensazione, qualcosa di più in realtà, che in questo Paese ci siano ancora troppe persone intoccabili ed ambienti impermeabili alla democrazia, difesi da potentati tanto oscuri quanto trasversali.

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Raffaele Mosca


Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno. L’artista polesano Piermaria Romani si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE
di Piermaria Romani


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