Mi chiedo di che si sta parlando… Dobbiamo stupirci e indignarci perché qualche illetterato buzzurro che, per sua fortuna, ha azzeccato il giusto mestiere pallonaro e calca il proscenio del gioco nazional popolare per eccellenza attirando (ahinoi) attenzioni spropositate e immeritate, si spende in espressioni sue consone e niente affatto incredibili, frutto di un normale e radicato malcostume dialettico quando gli animi prendono a scaldarsi e le idee ad appannarsi? Sarri non è personaggio intellettuale, non è un professore, non è uno statista, non è un ideologo, uno studioso, antropologo, sociologo, politologo che sia, non un pensatore, un filosofo, una figura istituzionale… Sarri è un provinciale che insegna a giocare a pallone, non un uomo avvezzo alle parole ma all’azione, uno sanguigno, un esponente del popolo semplice e lavoratore, con tutte le qualità e pure i difetti che il suo esserlo comporta. Se registrassimo tutte le parolacce, le offese e soprattutto le bestemmie che ogni domenica, dai campetti delle pro loco agli stadi della serie A, puntualmente e naturalmente vengono urlate da spettatori, giocatori, allenatori e, perché no, dagli stessi presidenti delle squadre, ebbene, non ne usciremmo proprio più! Che fare allora?
La questione è alla fonte, come sempre, ma non cerchiamola prendendo direzioni sbagliate, come sempre! Malcostume e ignoranza sono questioni più grandi di qualsiasi scoop giornalistico che nasce e muore nel giro di poche ore, passando ben presto nel dimenticatoio mano a mano che le notizie successive occupano lo spazio di quelle precedenti. Epiteti come frocio, negro, mongoloide, sono deplorevoli perché offendono e mettono alla berlina minoranze e soggetti deboli che, per fortuna, la società attuale e le sue istituzioni hanno imparato o stanno imparando a tutelare e rispettare. Fanno scandalo più di altre offese proprio perché, spesso, servono a sollevare un problema di convivenza civile in fase di elaborazione, cioè ancora non del tutto risolto.
Un esempio di ciò è che, se torniamo indietro di nemmeno tanti decenni, chi era razzista non si offendeva affatto se qualcuno lo apostrofava come tale, anzi. Adesso, anche i razzisti militanti, se chiamati razzisti, si offendono e reagiscono.
Questo la dice lunga su come il sentimento comune stia evolvendo in direzione del riconoscimento delle altrui diversità. Si tratta di un processo in divenire ormai avviato da tempo e che impiegherà, temo, ancora alcune generazioni per risolversi in una piena e naturale integrazione. I processi culturali sono lenti per definizione, molto più lenti di quanto vorrebbero gli attivisti impegnati per il cambiamento.
Spesso chi offende in un impeto di rabbia, lucidamente o meno non importa, lo fa usando d’istinto il termine più offensivo e dispregiativo che riesce a pronunciare. Lo fa nell’intento esclusivo di ferire e umiliare l’antagonista che gli sta di fronte, poco importa che il termine scelto sia, guarda caso, un epiteto che offende e umilia un’intera categoria di persone, l’importante è che sia efficace e che l’altro accusi il colpo. Un tempo i termini preferibilmente usati erano altri: cornuto, bastardo, figlio di puttana, tutti termini che, riflettendoci bene, riguardavano e riguardano condizioni e situazioni individuabili all’interno della famiglia. Oggi non è più così, la famiglia è implosa schiacciata dalla società e dal suo nuovo, immenso potere mediatico che ha di fatto raso al suolo le mura domestiche. Quello sociale, con tutte le problematiche ad esso correlate, è diventato il principale ambiente di formazione dell’individuo, ecco tutto.
Dunque, dobbiamo mettere alla gogna il signor Sarri per aver detto frocio a un suo collega notoriamente eterosessuale? Facciamolo, se questo servisse a risolvere il malcostume popolare dell’offesa gratuita a spese di intere categorie di persone.
O dobbiamo invece riconsiderare il comportamento del signor Mancini, che ha furbescamente denunciato nella piazza mediatica un termine certamente becero, ma all’interno di un diverbio che, in teoria, sarebbe dovuto rimanere confinato al campo da gioco? Forse Mancini non ricorda che lui stesso, anni addietro, offese allo stesso modo un giornalista dicendogli proprio “frocio di merda”, e che ancor prima sminuì le offese razziste di un suo compagno di squadra all’avversario di colore sostenendo che “certe cose iniziano e finiscono nel terreno di gioco”.
Viene il dubbio, visto i suoi precedenti, che Mancini abbia agito per ragioni tutt’altro che etiche. Ovvero, non tanto per mettere sotto accusa un malcostume culturale quanto per mettere mediaticamente sotto pressione un diretto avversario nella corsa allo scudetto. Se fosse vero, allora sarebbe opportuno dissociarsi da tutto questo clamore, per non rendersi ogni volta complici dell’ennesima operazione di morale massificata, operazione tanto politicamente corretta quanto falsa e ipocrita, che tanti personaggi pubblici quotidianamente ci dispensano per i loro scopi non dichiarati.
Il gioco, la competizione agonistica soprattutto negli sport di squadra come il calcio, nasce come simulazione della guerra, della lotta, serve per liberare e controllare in un ambito non violento gli istinti aggressivi propri della nostra specie, come di ogni altra specie predatrice. E in quanto tale, nonostante le regole imposte per disciplinarne i comportamenti e confinarli in un ambito di civile convivenza, libera inevitabilmente i nostri più bassi e feroci istinti: le offese verbali, i falli di gioco, le spinte, fino alle scazzottate, non sono che lo sgradevole ma inevitabile corollario della liberazione di essi. Dobbiamo stupircene?
Possiamo senz’altro cercare di controllarli e isolarli, quello che si dovrebbe certamente evitare è farli fuoriuscire dal loro contesto per farne uno strumento di propaganda a vantaggio di qualcuno, casomai mascherato come fosse un’operazione di denuncia a beneficio di tutti.
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Carlo Tassi
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