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E’ scomparso ieri, a 90 anni appena compiuti, il maestro Franco Farina. Ferraraitalia ricorda il suo ruolo nell’ambiente culturale non solo cittadino attraverso un’intervista di don Franco Patruno, cui lo legava una sincera amicizia.

Ricordo ancora l’affollamento, nella trecentesca Casa Romei, alla prima delle grandi rassegne promosse da Franco Farina: era il 1963 e nel mirabile Palazzo dei Diamanti, vera perla quattrocentesca di Biagio Rossetti, si stavano svolgendo lavori di ripulitura interna per rende funzionali e agibili gli spazi per future mostre. Si sapeva che Gualtiero Medri, storico dell’arte estense, aveva, come si suol dire, passato le consegne a un giovane maestro che aveva come un’antenna in più nel captare tutto quello che era avvenuto nell’arte del nostro Novecento. La mostra era quella di Giovanni Boldini, non a caso un ferrarese sprovincializzato che aveva avuto prestigiosa fortuna a Parigi. Pur non esibendo un progetto od uno specifico modello, che sarebbe apparso assolutamente utopico, quel giovane maestro cominciò ad allargare gli orizzonti con una mostra didattica su Paul Gauguin in collaborazione con Palma Bucarelli e la Galleria d’Arte moderna di Roma. Seguirono mostre sull’arte spagnola, sul gruppo degli Informali arcangeliani, Emilio Vedova, André Masson… La successione era impressionante, come estremamente fluida la possibilità di stabilire rapporti con Leo Castelli, con la Fondazione Peggy Guggenheim, con Guttuso e il gruppo dei Neorealisti della post-astrazione. Dal 1963 al 1995 novecentoottantre mostre. Renato Barilli ha scritto: “Se un giorno si farà la storia delle attività espositive in Italia, nell’ambito dell’ente pubblico e relativamente dell’arte contemporanea, un capitolo di essa dovrà riguardare Franco Farina, forse il caso più perspicuo nel corso degli anni Settanta”.

Ora sono di fronte al ‘maestro’, come tutti amano chiamarlo anche dopo la Laurea Honoris Causa di recente ricevuta dall’Università di Ferrara.
“Se dovessi utilizzare una terminologia ecclesiastica, gli domando, potresti affermare che la tua è stata una vocazione adulta?” Farina sorride, affermando che “anche nel mio caso preferisco adulta e non ‘tardiva’, perché il secondo termine fa pensare a una distrazione nell’ascolto. Dopo le scuole Magistrali, ho avuto la fortuna di decidere di diventare l’assistente di Gualtiero Medri che, in quegli anni, ricopriva una carica ampia: Pinacoteca d’Arte Antica, Galleria d’Arte Moderna e Palazzo Schifanoia. Mia madre, pur non afferrando sino in fondo il senso di questo mio nuovo lavoro, era felice che percorressi questa strada. Ricordi Pascal? Forse ciò che appare un semplice caso è il risultato invece di una sorta di scommessa: si osa nell’inedito”.
“In quel tempo – soggiungo – avendo anche una responsabilità per gli affreschi di Schifanoia il futuro poteva colorarsi, come per l’amico Andrea Emiliani, di arte antica”. Mi risponde dopo un attimo di silenzio: “Sì, è vero. Già d’allora, però, avvertivo il fascino dell’arte del nostro secolo. Ferrara, come tu sai, rischia spesso di reclinare su una memoria nostalgica del nostro glorioso passato d’arte. Credo di avere sentito proprio da te che la memoria biblica è invece una riattualizzazione e non un ripiegamento. In questo, se vuoi, sono stato biblico: riattualizzare il passato è far vivere il presente. Già far conoscere il nostro Boldini, poi anche Previati, Funi, Melli e De Pisis aveva un significato preciso, perché questi personaggi non si erano bloccati su autoriflessioni estensi del passato. E non è vero che non si sentissero più ferraresi perché andavano a Parigi, Roma o, comunque, fuori dalle mura storiche della città”. Queste affermazioni di Farina mi affascinano particolarmente perché in esse mi sembra di scorgere quel progetto che, sempre più esplicito, lo guiderà sino al 1995. “Allora mi venne l’idea di diverse collocazioni, soprattutto quando mi furono affidati ambienti come Palazzo Massari e altri, adiacenti ai Diamanti, che lentamente furono adattati, come oggi si dice, per ospitare dei ‘generi’ o ‘linguaggi’ più vicini alle sperimentazioni degli ultimi decenni. Così, se nella sede centrale dei Diamanti organizzavo una mostra di De Chirico, cioè di un maestro consacrato, al Padiglione d’Arte Contemporanea del Massari potevo far esporre Tadini, Pozzati, Ghermandi e quegli artisti, allora giovani, che si stavano imponendo nel panorama non solo nazionale”.
Farina si sta appassionando nel ripercorrere queste fasi e anche la sua gestualità si fa più piena e significativa. “Se con i protagonisti del nostro secolo attiravo l’interesse della critica e dei visitatori, nelle altre sedi, come nel Centro Attività Visive, facevo conoscere contemporaneamente i giovani emergenti. Basta scorrere le pagine di quei due volumi che mi hanno dedicato per vedere tutti i nomi di artisti ora riconosciuti e chiamati alla Biennale. Un esempio: alla mostra di Salvador Dalì, che curai direttamente con il grande spagnolo che mi fece esporre la sua collezione privata, ci fu gran massa; ma c’erano altre sette rassegne e guidavo i giornalisti, critici e visitatori in genere a vedere tutte le mostre”.

“È per questo – aggiungo – che si era velocemente sparsa la voce e ti ritrovavi file di nomi noti e giovanissimi davanti al tuo studio”. “Sì, è stato molto bello e anche faticoso. Se pensi che ero stato nello studio di molti di quei giovani, i miei ricordi si affollano a tal punto da creare una felice confusione. Sai, restare, se mi permetti l’autoironia nell’affermarlo, nella cabina di comando è facile; ma riempire l’agenda di impegni con la visita agli atelier, in gran parte fuori città, è esperienza diversa: significa conoscerli da vicino, avvertire i drammi di chi fatica a mantenersi con le mani di pittore o scultore. Trovare loro spazi espositivi, fargli un catalogo decente, consigliarli poi per gallerie significative senza perder tempo in altre che spillano solo soldi senza dare riscontro critico, è come diventare loro prossimi, vicini, amici”.
Pur conoscendo Franco da anni, rimango colpito dal calore di questi ricordi. Aggiungo che è per questo vero servizio che Barilli, Emiliani, Solmi, Cortenova e tanti altri hanno affermato che si è praticamente inventato un ruolo che non c’era nel panorama critico ed espositivo non solo nazionale. “È venuto tutto cammin facendo. Ho sempre rifiutato il ruolo di critico d’arte che non mi compete”. Lo interrompo facendogli notare che le sue pagine introduttive ai cataloghi erano critiche a tutti gli effetti. “Lo sapevo, dice sorridendo, che mi facevi il tranello. È vero: anche per gli artisti meno noti o, per riutilizzare la terminologia ecclesiale dell’inizio, ancora in vocazione incipiente, scrivevo una paginetta. Ammetto: molto densa e sintetica, pensata guardando e riguardando le loro opere. Mi sembrava normale introdurli. So che si è creata poi la moda e tutti volevano, anche quando esponevano negli Stati Uniti, la mia cartellina come passaporto per i galleristi. È vero anche che evitavo la pletora delle introduzioni inutili di chi dirige le istituzioni, e questo ha creato l’equivoco”. “Già – aggiungo – l’equivoco perché la tua pagina era pensata, critica, intelligente”. Accetta la sfida: “Faccio fatica a scrivere perché mi muovo meglio nel parlare e nel promuovere. Però quando mi metto alla macchina da scrivere, una vecchia Olivetti, sia detto per inciso, perché a differenza di mia moglie non sono tecnologizzato ed informatizzato, la fatica viene poi apprezzata come vera pagina critica. Fate voi!”

Prendo la palla al balzo: “Hai citato tua moglie, Lola Bonora. Un grande aiuto o vera autonomia?” “Lola lavorava in Regione con un incarico riguardante i mass media, la stampa e tutte le nuove forme di comunicazione. Quando si affiancò al mio lavoro già iniziato al Palazzo dei Diamanti, creammo la Sala Polivalente e il Centro Video Arte che, come ben ricordi, divenne un punto di riferimento internazionale. Era lei la responsabile e stabilì in breve tempo relazioni con esperienze francesi, tedesche e statunitensi di quel settore. Negli anni Settanta, poi, ci furono le Performance nelle quali, in modo interdisciplinare, operavano registi, pittori, attori di teatro. Devo a lei conoscenze con settori che non mi erano estranei, ma che non appartenevano alla mia diretta operatività espositiva”. “Ricordo, Franco, anche tutta l’attività promozionale in favore delle donne che operavano nei campi artistici e audiovisivi”. “Sì, è stato un periodo, dal 1973 al 1994 che, come scrisse Gillo Dorfles, fu di costanti scoperte, di iniziative inedite, di incontri sorprendenti, un periodo, cioè, incancellabile”. Ricordo a Farina che presentai in diverse occasioni esperienze di teatro sperimentale a carattere sacro alla Sala Polivalente. “Ciò che non aveva udienza nei teatri stabili, trovava in quella sede pronta accoglienza”. “Allora – prosegue Farina – l’orizzonte si fece più ampio. Pur essendo consapevole che alcune performance, per il loro stesso statuto poetico, si consumavano nell’atto stesso dell’esposizione e della messa in scena, dovevano essere conosciute. La curiosità, che spesso è oggi una virtù dal fiato corto e bruciata da insulsaggini televisive, aveva un senso come ricerca. Direi come seguire i percorsi della creatività nei diversi settori. D’altronde, se Dalì esponeva ai Diamanti, come non fare memoria del Surrealismo, del rapporto stretto del catalano con un grande regista come Buñuel? Anche quando esposi gli oggetti di Duchamp avevo coscienza di mettere in mostra, secondo l’intenzione dell’autore, non delle opere d’arte tradizionali ma come una sorta di poetica per oggetti. Cioè l’artista voleva dimostrare, contestando un certo tipo di esperienza museale, che un oggetto se collocato fuori dal suo contesto d’uso quotidiano acquista una valenza estetica, soprattutto se messo su un piedistallo. La curiosità di conoscere e di far vedere, quindi, ha la funzione di rendere attenti per non affrontare con il paraocchi il panorama delle avanguardie del nostro secolo. Tu parli spesso di precomprensione che diventa pregiudizio, e sai bene che quando si hanno delle pregiudiziali l’opera non può mai manifestarsi ne suo vero significato, ma sarà sempre accettata o rifiutata senza giudizio critico”.

“Mi accorgo che mentre parli, quello che hai definito il tuo ruolo acquista contorni sempre più specificati”. “Mi stai portando verso una definizione? Allora sarò più chiaro: molti critici d’arte svolgono, spesso con intelligenza e sensibilità, ruoli di direttori di pubbliche gallerie. Credo che tanti altri abbiano favorito quella che si suol chiamare una tendenza specifica, soprattutto per le precedenti prese di posizione sui cataloghi o sui giornali specializzati. Difficilmente non privilegiano una tendenza. Non voglio dire che un critico d’arte non possa accettare questo ruolo, perché non sono un integrista e conosco intelligenze diverse tra i critici. Il mio ruolo, se vuoi, è intermedio tra il critico e il manager”. Lo incalzo con un’osservazione: “Non parlerei di zona intermedia, non credo sia il tuo caso. Forse in te prevale o riemerge l’aspetto pedagogico dell’educatore dal quale sei partito”. “Vedo – mi risponde sorridendo e quasi accentando la sfida – che vuoi che mi definisca. Forse è l’occasione per farlo, perché non ho mai amato soffermarmi in quella sorta di autodefinizione che poi diventa compiacimento narcisistico. Sicuramente, anche se come sottofondo implicito, il bisogno di compiere un servizio, se vuoi quasi una diaconia, mi ha guidato nel lavoro quotidiano. Creare i presupposti perché la conoscenza dell’arte non sia ridotta al provincialismo che ha pesato su molte città, questo sì, è un fattore pedagogico, quasi un’energia educativa. Non sottovaluterei però il peso sociale e anche politico delle quasi mille mostre organizzate: una città che si apre al mondo, che favorisce l’internazionalità delle relazioni, che non concepisce la propria identità come nostalgico sguardo al proprio passato, anche se glorioso. Provincialismo è proprio questo: credere che l’identità coincida con le barriere e con le preclusioni. Vedo che gioisci mentre parlo, perché tocco alcuni punti della tua apertura cattolica. In questo mi sento molto cattolico, cioè universale. E’ una battaglia dura che vede, se ben ci pensi, la mia e la tua vocazione con punti di incontro non preventivati”.

Mi accorgo che l’intervista si trasforma in sereno confronto e colloquio. Meglio così. “Allora, è da questi presupposti che nasce la tua riconoscibilità in campo internazionale. Sai che quando mi trovo in musei e gallerie prestigiose all’estero mi domandano sempre: ‘come sta il maestro Farina? Lo saluti da parte mia!’ E’ evidente che il calore con il quale mi raccomandano il saluto non è convenzionale”. “Sai, don Franco, quando si organizzano rassegne di Magritte, Dalì, Picasso, Warhol, Rauschenberg, Chagall, Monet i rapporti internazionali si fanno, si potrebbe dire, vicini. È molto bello, anche perché ho sempre amato l’amicizia e sono convinto che ogni fatto organizzativo, se non c’è un autentico rapporto umano, diventa arida realtà, quasi un muoversi per muoversi… questo è ben lontano dal mio carattere”. “Eppure – accenno – chi ti conosce per la prima volta può avere la sensazione di un certo distacco, quasi un’aristocrazia dello sguardo”. Ride di gusto e riprende: “C’è anche uno stile per difendersi! Lo dico sorridendo. Quando ti senti sommerso da una quantità di proposte e devi, come dici spesso tu, far coincidere la carità con la verità, non si può nascondere ciò che si pensa. E’ inutile illudere qualcuno di essere un artista quando non lo è. Sarebbe un torto per i veri professionisti che non hanno il coraggio di farsi avanti e che, invece, bisogna andare a trovare nell’atelier, incitare a continuare nello studio. Aiutarli anche a trovare committenze, perché l’artista non vive d’aria, naturalmente”.

Sento che la conversazione può toccare anche alcuni aspetti più personali. Domando: “Non è forse vero che il tuo sentire, direi anche il tuo linguaggio sono religiosi?” Mi risponde con semplicità: “A mio modo mi sento non solo religioso in senso generico, ma cristiano. So apprezzare, anche se lo manifesto raramente, la gratuità di una amicizia, la grazia di ciò che è donato senza il do ut des. Questa, credo, è una verifica non solo del cattolicesimo in senso lato, ma della testimonianza soprattutto di voi sacerdoti. Tu ricordi la mia amicizia con il Vescovo Franceschi? Mi aveva capito subito e mi trovavo a mio agio con lui. Avvertivo la sua fede, non in astratto, ma nella capacità, non puramente formale o rituale, di farsi comprensione della laicità della mia vita. Fu un dono eccezionale per me la sua purtroppo breve permanenza a Ferrara”. Mentre Farina parla, vedo sul tavolino di fronte a noi un messalino aperto con la lettura liturgica dei Isaia. Gli chiedo se sia lui a leggerla. “Non ricordate più le cose passate, non pensate più alle cose antiche…”. Quando arriva al versetto finale che dice “per riguardo a me non ricordo più i tuoi peccati”, commenta segnando efficacemente la pagina con un dito: “Vedi la gratuità? Per riguardo a me! Se avesse aspettato la nostra risposta giusta, magari calcolata…”. Non credo di avere aggiunto altro.

L’intervista è stata pubblicata su ‘L’osservatore romano’ del 1-3-2000 con il titolo ‘Il provincialismo: un pericolo che insidia la conoscenza dell’arte’

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